La storia era nei giornali qualche anno fa. Un gruppo di malviventi si è accorto che il traffico delle quote carbone permette, tramite una serie di matriosche finanziarie, di frodare lo Stato. Conto del raggiro: 8 miliardi di euro (di cui 1,6 in Francia). Il resto è una fiction che scimmiotta il cinema americano, senza valore aggiunto.
Olivier Marchal è noto per essere un ex poliziotto, un «flic».

Non un piedipiatti qualunque, ma un funzionario con una lunga esperienza a capo d’una brigata anti terrorismo che la passione per il teatro ha prestato prima al mestiere d’attore e infine a quello di cineasta. Il suo cinema trasuda l’orgoglio dell’uomo d’azione che l’esperienza sul campo mette al di sopra delle verità possedute da quello che Descartes chiamava, non senza un certo disprezzo, «l’homme de lettre dans son cabinet», l’intellettuale diremmo noi, di cui non ci si può fidare perché non risponde mai personalmente delle proprie idee. Ecco che i film di Marchal parlano essenzialmente di persone che, pur perdendosi in un girone di vizi (i soliti: donne, soldi, taverna, dado), hanno una virtù: alla fine pagano sempre il conto (con la propria pelle).

È raro che il cinema europeo si interessi con successo a questo tipo umano. Anche in questo caso il risultato è mediocre. Il problema principale è quello della saturazione. Per Marchal l’intero universo è composto di persone che ragionano unicamente in termini di riuscita o di sconfitta dell’azione. Nel caso della Truffa del secolo, non c’è un solo personaggio che sfugga a questa legge o il cui profilo psicologico se ne distacchi. E questo nonostante il film impili compulsivamente un cliché sull’altro: madri, mogli, amanti, ricchi, poveri, arabi, ebrei sefarditi, gentili, poliziotti, truffatori, avvocati o mafiosi… Nella notte di Marchal tutte le vacche sono nere. Neanche Depardieu riesce a emergere dal mucchio. Inutile dire che non c’è molto da vedere.