Negli ultimi anni, l’interesse scientifico e divulgativo sulle mafie, si è concentrato soprattutto sulle camorre campane e sulla ‘ndrangheta calabrese. E che fine ha fatto Cosa Nostra? È una domanda legittima, perché l’organizzazione criminale siciliana, che fino al 1992 sembrava invincibile, adesso viene relegata ai margini delle cronache nazionali e internazionali. Michele Santoro, nel suo libro Nient’altro che la verità (Marsilio, pp. 402, euro 18), scritto con la collaborazione di Guido Ruotolo, sceglie di andare controcorrente, svolgendo una genealogia contemporanea di Cosa Nostra.

Santoro adotta, supponiamo inconsapevolmente, una metodologia scientifica che ricalca quella della Scuola di Chicago, ovvero la storia di vita. Attraverso la biografia di Maurizio Avola, ex membro della famiglia Santapaola, in seguito collaboratore di giustizia, Santoro riesce a ricostruire sia la struttura che le finalità e i rapporti col mondo legale di Cosa Nostra.

IL RACCONTO È DENSO, a volte struggente, e si avvale di una tecnica documentaria che si alimenta di un gioco di specchi tra l’autore e il suo interlocutore. Affiora così la strutturazione delocalizzata di Cosa Nostra. Per quanto le cinque famiglie siciliane lavorino di concerto, dispongono tuttavia di una larga autonomia organizzativa, per cui Cosa Nostra catanese, a differenza di palermitani e trapanesi, attinge largamente alla criminalità di strada. Non a caso, lo stesso Avola, prima di entrare nella famiglia Santapaola, era un rapinatore.

Le peculiarità locali si rivelano un fattore importante nel delineare la strategia della mafia siciliana nei rapporti con la politica. Ad esempio, laddove i corleonesi, dopo avere spodestato i Bontate e i Badalamenti, hanno scelto, anche in conseguenza del maxiprocesso, di imboccare il sentiero di guerra, Santapaola, per quanto aiutato da Riina e soci nella sua scalata al vertice della consorella catanese, vede meglio una strategia di collaborazione.

Si tratta in realtà di schemi idealtipici, all’interno dei quali si registrano relazioni fluide, funzionali, dove i confini tra legalità e illegalità sfumano, in nome delle rendite di posizione. In particolare, Avola ci ricorda che Cosa Nostra non prende ordini, ma li dà. Si tratta di un’affermazione forse troppo netta, ma che specifica il ruolo della mafia siciliana come uno degli attori che opera nella cornice dei rapporti di potere, forte di risorse materiali e relazionali.

AVOLA SI SPINGE però oltre. Arrivando a raccontare di avere partecipato all’attentato di via d’Amelio, e di sapere per certo della presenza di Cosa Nostra americana nelle stragi. A questo punto, qualche riflessione bisogna farla. Per esempio, Avola si riferisce alle famiglie di New York, laddove la mafia americana opera a Chicago, a New Orleans e a Montreal. Quindi potrebbe essere che si riferisca a Cosa Nostra newyorkese, che Falcone e Borsellino avevano danneggiato con le loro indagini. Inoltre, Avola parla da membro di Cosa Nostra catanese, per giunta in un ruolo nelle gerarchie medio-basse, quindi potrebbe avere saputo soltanto una parte dei fatti. In ogni caso, la sua asserzione meriterebbe di essere vagliata dai magistrati, allo scopo di trovare i riscontri necessari.

QUELLO che viene alla luce tra le pieghe del suo discorso, però, merita di essere approfondito. La costruzione del «pentito» Scarantino, l’utilizzo arbitrario del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, rappresentano delle pagine nere dello Stato di diritto, che, lungi dal risolvere il problema della criminalità organizzata, riproducono rapporti di potere esistenti e ne creano di nuovi. E Santoro e Ruotolo ce lo ricordano. Con la finalità di dare finalmente ascolto a Sciascia e costruire un’antimafia che vada al di là del professionismo.