Per quanto nota, la ferocia della dittatura del denaro non cessa di stupire. Ne giunge riprova dalla Regione Umbria, dove il ricovero delle persone anziane malate croniche non autosufficienti nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa) a carico del servizio sanitario regionale è, per ragioni di costo, prefissato in massimo 90 giorni, decorsi i quali il paziente «deve rendersi pienamente disponibile alla dimissione» (così si legge nelle comunicazioni rivolte ai malati), a prescindere dalla circostanza che sia o meno guarito – e, anzi, persino nel caso in cui le stesse strutture sanitarie ragionali dovessero accertarne la persistente condizione di malattia.

Un caso recente è particolarmente significativo.

Riguarda il quasi novantenne signor G.S., che, raggiunti gli 88 giorni di ricovero – peraltro non continuativi – in una Rsa di Terni, si vede recapitata una lettera in cui gli viene intimato di prepararsi alle dimissioni, mentre, nel contempo, l’Equipe Centro di Salute 1 di Terni (appartenente alla Usl Umbria 2) ne certifica il disastroso quadro clinico.

A leggere la documentazione c’è da rimanere senza parole: il signor G.S. «è invalido al 100%» ed è afflitto da patologie quali «scompenso cardiaco con fibrillazione arteriale persistente», «insufficienza respiratoria cronica», «spondiloartrosi diffusa», «frattura vertebrale», «esofagite erosiva con grave anemizzazione», «litiasi vescicale con idroureteronefrosi bilaterale», «trombosi venosa profonda all’arto inferiore sinistro», «gozzo tossico», «attacchi ischemici transitori ricorrenti», «lesioni da decubito», «declino cognitivo», «depressione».

Dato il quadro, la conclusione è scontata: «il signor G. S. non è autonomo né nei trasferimenti né nell’utilizzo della sedia a rotelle», «è completamente dipendente nell’igiene personale e nella vestizione», «necessita di controlli accurati alla diuresi» con «corretta gestione del catetere» e «sostituzione periodica dello stesso», «necessita di cibo adeguatamente preparato per la somministrazione», «non è in grado di assumere farmaci autonomamente», «necessita di prelievi periodici» per determinare il dosaggio dei farmaci stessi. In poche parole: «necessita di assistenza continua nelle 24 ore».

Come possa il sistema sanitario pubblico pretendere di dimettere un paziente in queste condizioni – assicurandogli, oltre all’assistenza infermieristica strettamente necessaria, l’assistenza domiciliare per appena un’ora al giorno e per soli sei giorni a settimana – è incomprensibile.

L’articolo 2 della legge n. 833 del 1978, attuativa dell’articolo 32 della Costituzione, individua quali compiti della sanità «la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata». La precisazione sulla durata non è senza significato, perché – come nel caso del signor G. S. – esistono malattie che non sono guaribili, ma rimangono pur sempre curabili.

La sanità umbra viene consapevolmente meno al dovere di cura, se è vero che nel medesimo documento le sue strutture affermano che il paziente ha necessità di assistenza continua nelle 24 ore e s’impegnano a intervenire per un’ora al giorno e nemmeno tutti giorni della settimana. E per le restanti 23 ore giornaliere? Evidentemente dovranno pensarci i parenti, che – pur non avendo obblighi di prestare cure sanitarie e socio-sanitarie – dovranno rinunciare a lavorare e dar fondo ai propri (eventuali) risparmi. A fronte dell’opposizione alle dimissioni presentata dai congiunti del signor G.S., l’Usl Umbria 2 ha inviato loro la fattura delle spese derivanti dal prolungamento della degenza nella Rsa, pari a 135 euro al giorno. Per un anno si raggiunge la cifra di 49.275 euro. L’assistenza domiciliare sarebbe meno onerosa, ma costerebbe comunque decine di migliaia di euro all’anno. C’è di che mandare in rovina una famiglia.

A questo siamo giunti? Al punto che per curare un congiunto malato le famiglie devono rovinarsi? Spinta alle estreme conseguenze, l’aziendalizzazione della sanità divora il diritto alla salute, invertendo l’ordine delle priorità costituzionali, che – come recentemente ribadito dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 275 del 2016) – alle esigenze dei bilanci antepone quelle dei diritti.