Il 4 gennaio del 2011, il giovane disoccupato Mohamed Bouazizi si dà fuoco davanti alla prefettura di Sidi Bouzid, nella Tunisia centrale. Un gesto fortemente simbolico, che lo renderà «martire» e restituirà al popolo tunisino il coraggio di uscire in strada all’urlo di la khaoufa baada al’yaoum («mai più paura»), fino a rovesciare – dopo ventitré anni di soprusi – il regime di Zine El-Abidine Ben Ali.

Il 28 maggio scorso, Eya – una tredicenne della periferia di Tunisi – viene bruciata viva dal padre e muore dieci giorni dopo in ospedale. Le circostanze del delitto non sono chiare ma secondo il sito d’informazione Kapitalis.com l’uomo si sarebbe infuriato contro la figlia per averla vista passeggiare con un amico all’uscita di scuola. Nonostante l’efferatezza del crimine, la Tunisia post-rivoluzione – che con il governo di Ennadha ha bruscamente virato verso l’integralismo religioso – non sembra accusare il colpo. Lina Ben Mhenni,candidata nel 2011 al Nobel per la Pace per il suo attivismo durante la «primavera araba», prova a spiegarci le ragioni.

È la prima volta che abbiamo notizia di un simile omicidio in Tunisia.

Questo è il primo caso d’immolazione con il fuoco che coinvolge un’adolescente. Ma anche se la stampa ufficiale non ne parla, in certe regioni dell’interno, alcune ragazze vengono uccise dai familiari perché «colpevoli» di aver perso la verginità prima del matrimonio.

Come spieghi l’assenza di reazioni nella società?

Ultimamente tutto succede nell’indifferenza. La gente è stanca e occupata dai propri problemi, il costo della vita ogni giorno più alto, la sicurezza minata dai gruppi terroristici che crescono nel paese. La cosa più grave è che nemmeno le associazioni femministe e quella per la protezione dell’infanzia, così come i partiti politici, si sono pronunciate al riguardo. Per il prossimo 19 giugno, io e altri rappresentanti della società civile, abbiamo organizzato una marcia silenziosa in memoria di Eya che partirà dalla Piazza per i Diritti dell’Uomo a Tunisi.

Qual è il tuo giudizio sulla nuova Costituzione in vigore da gennaio?

Dall’estero si congratulano con noi per questo traguardo e si dice sia una Costituzione modernista, progressista e rivoluzionaria. A un’attenta lettura, però, ci si rende conto delle trappole linguistiche di cui è infarcita e delle differenti maniere in cui può essere interpretata. Per me resta inchiostro su carta. Anche durante il regime di Ben Ali – eccezion fatta per qualche articolo che gli permetteva di esercitare il potere a vita – avevamo una Costituzione che era quasi accettabile sul piano teorico. Il problema, ieri come oggi, è quello di una corretta applicazione dei princìpi.

Per quel che concerne i diritti delle donne, ci sono stati miglioramenti o regressioni?

C’è un articolo che sancisce l’uguaglianza tra cittadini di sesso maschile e femminile davanti alla legge ma ciò non corrisponde a un’effettiva parità. Quando si parla di cittadinanza, infatti, si taglia fuori la sfera privata. La situazione non è peggiore di prima ma dipende, appunto, da come vengono interpretate le norme.

Cos’è cambiato, invece, nella strada?

Viviamo nell’insicurezza. Gli scontri tra terroristi e polizia sulle montagne, le aggressioni e le rapine in città sono all’ordine del giorno. Da quasi un anno, dopo l’assassinio del leader politico Mohamed Brahmi, anch’io sono sotto scorta. Il mio nome è stato trovato in una «lista di liquidazione» redatta da un gruppo terrorista e c’è un video nel quale il capo dell’organizzazione islamista Ansar al-Sharia, pronuncia una condanna a morte nei miei confronti.

È lecito parlare di fallimento della rivoluzione?

Non direi. Per me la rivoluzione è iniziata nel dicembre 2010 e non si è ancora conclusa. Non siamo riusciti a realizzare gli obiettivi prioritari che ci eravamo posti e ora bisogna affrontare altre sfide. Io, però, non sono preoccupata perché – malgrado sia diminuito il numero delle persone che confidano nel cambiamento – coloro che hanno giocato un ruolo chiave nella caduta di Ben Ali sono ancora attivi.

I blogger, del cui movimento sei una capostipite, sono ancora in grado di dare un contributo decisivo?

I blogger possono ancora «disturbare». Prova ne è il recente arresto di Aziz Amami, che ha denunciato le persecuzioni ai danni dei giovani rivoluzionari, i quali avevano a loro volta criticato la liberazione dei criminali di regime. Io stessa subisco una campagna di diffamazione da parte degli ex esponenti del Rcd (il partito di Ben Ali, ndr), che sono tornati in forza, partecipano ai dibattiti in Tv e si spacciano per i veri rivoluzionari. Il mio lavoro giornalistico, però, è compromesso perché le persone sanno che sono sotto scorta e non mi parlano più spontaneamente.

Senti di avere un ruolo diverso rispetto a quando eri la blogger simbolo della «rivoluzione dei gelsomini»?

Ora sono più attiva sui social network che sul blog, perché una comunicazione immediata e alla portata di tutti è spesso più efficace. Vengo invitata a parlare del mio paese in tutto il mondo e nei prossimi giorni sarò in Italia per ritirare il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo. Eppure, in Tunisia, c’è chi mi accusa di auto-promuovermi e chi, per i miei trascorsi negli Stati Uniti, mi reputa una spia al soldo dei servizi segreti internazionali.

Tuo padre Sadok – leader storico della sinistra – ha contato molto per la costruzione della tua coscienza politica. I giovani della tua generazione, invece, con quali punti di riferimento sono cresciuti?

Molti si sono formati all’interno dell’Unione Generale degli Studenti, altri sono entrati nei partiti politici in giovane età. La partecipazione politica è senz’altro minoritaria nei giovani tunisini ma non totalmente assente.

La democrazia in Tunisia: utopia o possibilità?

Non mi piace perdere la speranza. Bisogna conservarla. Mi sono battuta con passione e per amore verso il mio paese. Anche se la mia vita è a rischio a causa di tutto questo, credo più che mai nel valore della libertà.