Ne sono passati di taxi sotto il naso dai tempi di Zara 87. Il taxi come microcosmo è un concetto allargato dalla new economy ma sempre finestrino aperto sul marciapiede. «World Taxi» (2019) è un documentario del tedesco Philipp Majer (classe 1982) in cui cinque conducenti di taxi in cinque diverse città (Bangkok, Berlino, Pristina, Dakar, El Paso) vengono pedinati nelle loro corse quotidiane. Il montaggio è parallelo e le confidenze si intrecciano a quelle dei passeggeri. A Pristina l’indipendenza del Paese non pare abbia portato sensibili vantaggi ai suoi abitanti, a Bangkok inveire contro il governo può essere pericoloso mentre a Dakar il sogno europeo è al centro del dibattito assieme al rapporto tra i generi. Mentre tutti discutono e il mondo scorre fuori, il taxi berlinese, guidato dalla tassista Bambi La Furiosa (!), raccatta gli avventori dei club notturni e potenziali scambiste che cercano di coinvolgerla. Ah, quante volte Bambi ha lasciato il numero e nessuno l’ha richiamata! Nel frattempo a El Paso, sullo schermo di un diner, le immagini dell’ennesima strage da armi da fuoco sono la cornice di chi sceglie il taxi verso il Messico e cure mediche accessibili. Majer viaggia per il mondo e apprende il fallimento delle classi politiche e il cancro indomito della corruzione, i miraggi dell’European Dream e quelli della libertà sessuale. È un documentario gentile, senza sproloqui, e si ritaglia un angolo di tutto rispetto nel vasto filone del «cinema in taxi». Lontano dall’urgenza politica di «Taxi Teheran» (Panahi, 2015) e dal reportage accurato del documentarista canadese Barry Greenwald («Taxi!», 1982) in cui si approfondiva il dietro le quinte dei tassisti di Toronto, Majer si rivolge idealmente ad altro. Le 24 ore parallele calcano quelle di Jarmusch in «Night on Earth- Tassisti di notte» (1991) per le vie di New York, Parigi, Roma ed Helsinki. Ma se il regista americano vagava in un fuori orario a sua immagine e somiglianza, con personaggi strambi e di pura fiction, Majer resta nella banalità delle giornate, uno sguardo rapido, efficace, leggermente ironico, per certo meno noioso di quello dell’artista Chia En- Jao che in «Taxi» (2016) trascina lo spettatore nei lunghi monologhi di un tassista per le strade di Taipei per raccontare i luoghi della legge marziale dopo l’occupazione giapponese, della guerra fredda e dell’oggi. Non è importante che si arrivi a una destinazione specifica, basta questo in tempi di distanze sociali: il sapore della discussione, la voglia di incontrare le persone e parlare. Dal vivo.

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