E neppure era accetta alla cultura marxista, importante in Italia non come disciplina, ma come ideologia di forze politiche e sociali di opposizione. Insomma, lo storicismo era il clima culturale prevalente.
Nell’opera della sua lunga vita si sono intrecciati contributi empirici e teorici. Un capolavoro di ricerca è stato nel 1960 Comunità e razionalizzazione, lo studio delle trasformazioni nel lavoro di fabbrica e nella vita della cittadina in cui essa era situata, La Bassetti a Rescaldina, un caso esemplare della grande trasformazione in corso in Italia.
Più noto lo studio delle lotte operaie, il ciclo iniziato con l’Autunno caldo del 1969, uno studio di sei fabbriche svolto entro uno schema teorico omogeneo, e, noto nel mondo anglosassone per la riedizione, The revival of class struggles in Europe, che ne fecero lo stesso Pizzorno e Colin Crouch.
L’opera teorica di Pizzorno precede, accompagna e segue quella empirica ed è più nota all’estero. La base di riferimento è un confronto con pensatori classici, filosofi e sociologi, a partire da Durkheim, il fondatore della sociologia come disciplina accademica: a quella problematica Pizzorno era tornato e stava programmando un libro su Hobbes.
Per anni Pizzorno ha criticato il paradigma della «rational action theory», dominante in economia e che attraeva e attrae non pochi sociologi contemporanei per il fascino della patente di «scientificità» che sembra conferire, consentendo di applicare anche nelle scienze umane criteri di valutazione apparentemente obiettivi.
Ma vale per la sociologia ciò che vale per la fisica?
Nel messaggio che lascia Pizzorno vi è l’invito ad una sociologia critica, che veda una interazione tra soggetti e oggetti della ricerca nella scia di quell’approccio comunemente denominato conricerca o metodologia dell’Inchiesta.