C’è un filo stretto che lega i dissensi di Atene con il movimento di Occupy, e poi le sollevazioni di Piazza Tahrir e di Ferguson insieme alle recenti proteste degli immigrati clandestini. Se Judith Butler avesse scritto oggi il suo Notes Toward a Performative Theory of Assembly (pubblicato due anni fa negli Stati Uniti), forse avrebbe dedicato alcune pagine anche alle manifestazioni femministe che stanno occupando la scena mondiale. Tradotto per Nottetempo da Federico Zappino, L’alleanza dei corpi (pp. 347, euro 17) fa la sua comparsa come pietra angolare per comprendere e discutere alcune recenti forme incarnate di «raduno collettivo».

CON IL PREGIO RARO di seguire il rintocco del presente, Butler entra subito nel merito di cosa significhi, e come si rappresenti, l’agire di concerto come contestazione delle concezioni dominanti del potere. Per decifrare cosa accade in simili episodi, la prima idea che va sistemata è quella concernente il popolo, una porzione – complicata da demarcazioni e conflitti – di una popolazione. In colloquio critico con Foucault, si tratta di strategie discorsive specifiche che assolvono a una «dichiarazione di egemonia» più che a una scommessa inclusiva.
Allo stesso tempo, viene a configurarsi una distinzione necessaria; se infatti l’assembrarsi richiama il protagonismo della folla dotata, in generale, di una certa carica rivoluzionaria, è pur vero che non potremmo in nessun modo gioire per un raduno neofascista né per manifestazioni razziste o di gruppi paramilitari e polizieschi tesi alla repressione. In effetti, bisogna conoscere le ragioni di quelle persistenze prima di gridare alla emersione di occasioni democratiche che rendono vitale l’agone politico. Concentrandosi su alcuni speciali casi di raduno collettivo, Butler indaga quelli in cui ad apparire è una promessa di vivibilità, di giustizia.

CON PASSO SOSTENUTO e più disteso rispetto i suoi precedenti volumi, colloca le insorgenze come transitorie e degne della massima attenzione. Al centro è il corpo che, allontanato l’orizzonte identitario e monolitico, è crocevia di «assemblate» istanze. Politico e pensato come «impossibile totalità», il corpo segue il tragitto imperfetto e mosso in cui è implicato dai tempi di Gender trouble. Puntella e racconta anche qui la performatività del genere, si interroga sui limiti discorsivi del «sesso» e su ciò che essi escludono. Ma fa qualcosa in più. Alla parodia, intesa come postura imitativa senza un’origine, si sostituisce ora l’aspra e aperta lotta con il presente. È adesso che la pluralità di corpi arriva a piena maturità, ora che le «vite dispensabili», quelle precarie di cui Butler ha già molto scritto in passato, scoprono nuovi punti di contatto. E di incontro. Ora che sanno di sé, quei corpi, di potersi rappresentare come una azione politica anche là dove tutto apparentemente viene loro negato.

L’ALLEANZA non è tuttavia un affastellarsi di individui che si ritrovano alla rinfusa, né una partita a scacchi per spartirsi punti o sconfitte, è piuttosto qualcosa che accade in presenza, in un «tra» che emerge nella contingenza del trovarsi prossimi. Nelle proteste e manifestazioni, negli scioperi e nei raduni recenti, nelle occupazioni di luoghi già connotati e da sovvertire, Butler precisa come quel «tra» sia uno spazio privo di vuoto e niente affatto ideale seppure componga – eccome – comunità.
Diverso da un medio istituzionale e sottratto dalla dicotomia arendtiana di corpo privato versus corpo pubblico, è anche il terreno in cui si agisce. Irriducibile, si crea a partire da chi decide di farne parte. Non può essere uno spazio neutro né ibrido perché si manifesta da una tensione di corpi che sono anzitutto sessuati, disposti a mettere in gioco una privata e differenziale precarizzazione ed enunciare la «domanda di giustizia» che precede tutte le altre. La domanda di giustizia è già una asserzione di potente e pronunciabile libertà. Un modo della resistenza, un esito dell’essere in relazione. È infatti nel riconoscersi in relazione che si disfa il potere.

NEL FARE E DISFARE, che segue nel movimento ciò che Butler attribuisce anche alla performatività, si viene a verificare qualcosa di imprevisto, uno spostamento. Se infatti il corpo, di cui ogni soggetto è provvisto, è implicato già all’origine nel potere che, prima di essere individuato esternamente, è «sentito» psichicamente da una soggettivazione originaria, oltre che normativa, in quel campo relazionale che ora lei stessa individua avviene qualcosa che scalza e che libera. L’alleanza è già latente poiché, conferma Butler, conferisce struttura alla nostra stessa soggettività. Ribadisce la preferenza della relazione all’ontologia, mostra l’insufficienza della mera «forma sociale futura». Allo statuto «minoritario» dunque, di precarietà parziali, che si fanno largo e che stabiliscono appuntamenti, rivolte e brevi o medi exploit, non si sostituisce una trasversalità della comunanza bensì l’idea che prima di riconoscere l’apparizione pubblica dell’alleanza dei corpi, quegli stessi corpi si debbano riconoscere da sé per fare largo alla complessità da cui si è abitati e distillarne l’«io». E sentire ciò che nell’altro è vivente.

Il piano etico della buona vita avanza, a questa altezza, nell’individuazione della vulnerabilità come forma di attivismo politico. È su questo punto che si presenta la vera posta in gioco: connotare, ascoltare e praticare la vulnerabilità – che è anzitutto del corpo e di cui Butler ha già consegnato una notevole (e al momento insuperata) narrazione – per leggere la grammatica politica della strada.