Un gruppo di giovani nel 2016 si imbarca su un battello, la Iuventa, con lo scopo di salvare vite nel Mediterraneo. I finanziamenti arrivavano da un piccola ong tedesca, la «Jugend Rettet». L’imbarcazione viene sequestrata dalla procura di Trapani il 2 agosto 2017. Un anno dopo 10 avvisi di garanzia nell’ambito di un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono recapitati ai membri dell’equipaggio. Si tratta del primo caso in Italia di incriminazione del soccorso in mare. Tra il 2016 e il 2017 la Iuventa ha effettuato circa 14000 salvataggi. Abbiamo intervistato Sascha, paramedico e capo missione, tra gli indagati nel processo.

Cosa ti ha spinto ad andare in missione nel Mediterraneo?
Inizialmente il mio desiderio di cambiare qualcosa. Ho sempre pensato che se qualcosa non ti piace devi attivarti in prima persona. Questa era la mia risposta al regime dei confini europei. Il resto viene da sé, quando vedi la sofferenza delle persone e capisci quanto puoi realmente fare per loro, è una sensazione travolgente, tanto che ho lasciato il lavoro che avevo come paramedico per potermi dedicare a questo.

Quale è stato il momento più difficile della vostra permanenza in mare?
Ogni volta che arrivavamo troppo tardi. Sei lì su un battello che fa 10 nodi all’ora, e sai che a 10 miglia ci sono persone che stanno affogando e non riesci ad andare più veloce, questa è una delle cose peggiori, soprattutto quando sai che ci sarebbero mezzi più veloci, ma non vengono usati. E poi tutte le volte che abbiamo visto cadaveri galleggiare oppure quando non siamo stati in grado di salvare tutti, momenti che ti distruggono. Ma almeno allora eravamo attivi. Il peggio è stato nel maggio 2017, quando siamo stati richiamati a Lampedusa dalla Guardia costiera, mentre nella rescue area c’erano operazioni di salvataggio in corso. Ora sappiamo che quella chiamata serviva a disseminare nella nostra imbarcazione misure di sorveglianza, come cimici e microfoni. Quel momento è stato terribile: arrivavano chiamate da Sea watch e Aquarius che vedevano all’orizzonte imbarcazioni in panne e non avevano sufficiente spazio per tutti, ma noi non potevamo andare, ci era stato intimato di tornare immediatamente. A Lampedusa, hanno perquisito la barca e ci hanno interrogato. Dopo ci hanno lasciato andare. Siamo stati in mare per altri due mesi fino a quando è arrivato il sequestro preventivo.

Avete avuto la percezione di essere sotto sorveglianza in quei due mesi?
Sapevamo che la narrazione era cambiata e che la relazione con l’autorità marittima era mutata drasticamente. Nel 2016 quando abbiamo iniziato, siamo stati accolti benissimo dalla Guardia costiera, ci chiedevano espressamente di essere più presenti in mare. Discutevamo spesso su come migliorare le nostre potenzialità di salvataggio e come cooperare con i mezzi della marina. Era un rapporto tra colleghi. È cambiato improvvisamente. Prima con le dichiarazioni del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che annunciavano indagini in corso su possibili commistioni tra ong e scafisti. Poi l’attività del pm Carmelo Zuccaro, l’arrivo di Minniti al ministero dell’Interno. Abbiamo capito che tutto stava cambiando, e che ogni missione poteva essere l’ultima.

Come è avvenuto il sequestro della nave?
La Guardia costiera ci ha chiesto di avvicinarci alla costa per un salvataggio ma non abbiamo trovato nessuno, poi ci hanno detto di attraccare. Al porto di Lampedusa c’era uno schieramento di polizia e stampa. I file dell’indagine erano stati diffusi ancora prima che noi venissimo messi al corrente. Sono iniziati gli interrogatori, ma ancora ci dicevano di stare tranquilli, che era solo un controllo. Poco dopo è arrivata la comunicazione del sequestro.

Come è stata recepita la vicenda in Germania?
Dopo il sequestro, non è stato facile trovare alleanze. Molti pensavano «forse hanno fatto davvero qualcosa di sbagliato», i semi del dubbio erano stati piantati nella testa delle persone. Abbiamo fatto un lavoro enorme con Forensic Architecture*, gruppo di contro-inchiesta per i casi giudiziari in cui sono presenti abusi di potere. Il governo tedesco non si è mai esposto sulla vicenda, ma diversi politici hanno preso posizione a nostro favore. Poi tanti piccoli gesti di solidarietà. Ad esempio nella mia cittadina, Potsdam, ho vinto un premio per il valore civile per le mie attività in mare. Poi come Iuventa a maggio ci sarà assegnato il Paul Grüninger Prize, un riconoscimento internazionale per la difesa dei diritti umani. È assurdo, mentre vinciamo un premio internazionale siamo processati per le stesse azioni.

Come pensi che andrà il processo?
Il processo potrebbe durare anche 5 anni, questo comporta costi altissimi per noi, si prevede che in tutto ci serviranno 500.000 euro. Molto del nostro tempo è impiegato a raccogliere fondi altrimenti non possiamo farcela**. La legge italiana è particolare, il soccorso in mare è garantito senza eccezioni, ma c’è una sentenza della Cassazione del 2016, secondo la quale per i migranti le leggi del mare non dovrebbero valere perché sono loro stessi ad aver provocato «consapevolmente» la situazione di necessità. La domanda a cui nessuno risponde è «cosa facciamo per le persone che muoiono affogate?». La Guardia costiera libica è pagata per riportarli indietro. Ma i migranti ci dicevano «lasciateci morire in mare ma non portateci indietro in Libia», queste frasi ti spezzano il cuore.

*Sul caso della ong tedesca è stato prodotto anche un docufilm, «Iuventa» di Michele Cinque.

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Causale: Iuventa