Certe volte il sorriso è timido, altre sornione o smagliante. Sorrisi che attraverso il mezzo fotografico acquisiscono il dono dell’eternità. Sono persone comuni quelle che passano per lo Studio Malick, nel quartiere popolare di Bagadaji a Bamako (Mali). Ma agli occhi del fotografo sono come divi del cinema. Malick Sidibé (Soloba, Mali 1936, vive a Bamako) li osserva, lascia che si mettano a loro agio e, quando è convinto che il momento sia quello giusto, fa scattare il click. Tutti quei personaggi dagli atteggiamenti ingenuamente calcolati sono ignari del loro destino di «vintage» preziosi e quotati, esposti in mostre internazionali come Studio Malick, Bamako. Fotografie di Malick Sidibé (a cura di Laura Incardona e Laura Serani) alla galleria del Cembalo di Roma (fino all’8 novembre).
La fotografia ha sempre giocato un ruolo decisivo nell’esportazione di un’idea autoreferenziale di propaganda colonialista, ma nelle mani dei fotografi africani diventa lo strumento più immediato per la ridefinizione e riappropriazione della propria identità. Nell’Africa sub-sahariana ciò avviene tra il 1957 e il 1960, quando dilaga l’«epidemia» dell’indipendenza. A Bamako, in particolare, dove arriva intorno al 1854 con i «pied-noir», la fotografia ha una grandissima diffusione dagli anni Trenta. Felix Diallo, Nabi Doumbia, Samba Ba, Mountaga Dembélé… la maggior parte dei fotografi locali studiano con i bianchi – l’istruzione scolastica è uno dei pochi risvolti positivi del colonialismo – lo stesso Malick, dopo essersi diplomato in arti applicate (disegno e gioielleria), viene chiamato dal fotografo francese Gérard Guillat-Guignard a decorare il suo negozio.
Questa esperienza lo avvicinerà per sempre alla fotografia. Dal 1955 al 1962 è apprendista di Gégé la pellicule (soprannome del francese), finché non decide di aprire il suo atelier lì dove si trova tuttora. Diversamente da molti suoi colleghi che fotografano prevalentemente in studio, Sidibé, dopo l’orario di lavoro, se ne va in giro per i club della capitale, dove i giovani della sua generazione ballano nelle calde notti africane. Al ritmo di twist e cha cha cha non è difficile lasciarsi trascinare, complice l’adrenalina della giovinezza e l’audacia della trasgressione.
Esattamente la stessa che trapela dai giovani di entrambi i sessi, in costume da bagno e occhiali da sole in gita sulle rive del Niger. Con lo sguardo di chi vive la situazione dall’interno, il fotografo maliano racconta quei momenti di autentica spensieratezza. Anche alle feste di nozze c’è tanta allegria: Malick scatta le sue foto, poi corre in studio, sviluppa i negativi e stampa i provini a contatto che incolla sui cartoncini colorati («chemises»), che vediamo esposti alla galleria del Cembalo. Il giorno dopo è in grado di mostrarli ai vari personaggi perché scelgano la foto da acquistare.
Per sbarcare il lunario si dedica anche alla riparazione degli apparecchi fotografici: pure il grande fotografo Seydou Keïta, per cui nutre ammirazione e rispetto, è suo cliente. Una certa propensione per i lavori di grande minuzia gli viene, del resto, dalla dimestichezza con le tecniche dell’oreficeria. Alcuni apparecchi sono ancora in bella vista sui ripiani dello Studio Malick, accarezzati dalla sabbia rossa che invade la città. La sala posa – una stanzetta di una manciata di metri quadrati – è immediatamente riconoscibile per il pavimento a scacchi bianco e nero, presente in moltissime fotografie. Altre volte, basta stendere un tessuto con disegni ornamentali, e magari appuntarlo anche come sfondo, per dare un volto nuovo allo spazio. È così in tantissime foto, come quella che ritrae la giovane Madame Ramatou o Monsieur Simparas tra i suoi amici.
Quando André Magnin l’ha «scoperto», nei primi anni novanta, Malick non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato una star, consacrato dalla Biennale d’Arte di Venezia con il Leone d’oro alla carriera nel 2007 e onorato da numerosi premi, tra cui il World Press Photo 2010 (sezione Arts and Enterteinment).
Oggi il lavoro d’archivio prevale sull’attività di fotografo, aiutato nella gestione degli affari da almeno tre dei suoi innumerevoli figli, Fousseini, Moby e Karim. Ognuno di loro ha preso qualcosa del padre: intelligenza, modestia, ironia. E mentre il papà è in giro per il mondo a presenziare alle sue mostre, loro lo attendono in studio, sorseggiando un tè e scambiando due chiacchiere con i visitatori (in Africa lo studio fotografico è come il parrucchiere: un irrinunciabile punto d’incontro dove si passa il tempo, parlando e ascoltando).
Nel frattempo, si lasciano ritrarre nella vecchia sala-posa, proprio come ha sempre fatto Malick con tutti i suoi clienti.