Il movimento per l’acqua è tornato in piazza a dieci anni esatti dalla straordinaria vittoria del referendum, nel quale la maggioranza assoluta degli italiani decise in maniera sovrana che l’acqua dovesse essere considerata un bene comune e che il servizio idrico dovesse essere sottratto agli interessi del mercato e affidato alla gestione partecipativa delle comunità territoriali.

Come tutte e tutti ricordiamo, quella di dieci anni fa fu un’esperienza inedita di partecipazione dal basso e di protagonismo sociale diffuso e reticolare; una vera e propria occasione di rigenerazione verso una democrazia reale, dopo decenni di politiche liberiste che avevano svuotato di senso le sedi decisionali
elettive. Poiché le rivoluzioni non sono mai un evento ma un processo, anche quel risultato fu il frutto di un lavoro durato anni, a partire dal primo Forum Alternativo Mondiale sull’Acqua, realizzato a Firenze nel marzo 2003, passando per la nascita del Forum italiano dei movimenti per l’acqua a Roma nel marzo 2006, per il lancio di una legge d’iniziativa popolare che, nel semestre gennaio-luglio 2007, raccolse oltre 400.000 firme.

Un processo di alfabetizzazione popolare diffuso in tutti i territori, che è riuscito ad affermare il paradigma dei beni comuni come elemento centrale di alternativa alla narrazione liberista e come fulcro per la costruzione di un’alternativa di società.

Un percorso così dirompente non poteva essere accettato da governi e grandi poteri finanziari, che proprio sulla mercificazione dei beni comuni e sulla privatizzazione dei servizi pubblici contavano per riprendere i meccanismi di accumulazione finanziaria e dare uno sbocco alla crisi da sovrapproduzione del modello capitalistico.

Fu cosi che, preso atto della perdita di consenso intorno al mantra «privato è bello», lo si trasformò nell’imposizione autoritaria «se anche privato non è bello, è obbligatorio e ineluttabile».

Per fare questo passaggio, occorreva trasformare la storica favola liberista della ricchezza per tutti in un incubo «austeritario», utilizzando lo shock del debito pubblico, che, non a caso, divenne il tema centrale a partire dall’agosto 2011, nemmeno due mesi dopo la vittoria referendaria, attraverso la famosa lettera della Banca centrale europea all’allora governo Berlusconi, sostituito nel novembre successivo dal governo «tecnico» di Monti.

Da allora, i processi di privatizzazione sono stati costantemente perseguiti da tutti i governi in carica, tanto che oggi, dieci anni dopo, l’antagonismo tra la narrazione liberista e il paradigma dell’acqua e dei beni comuni resta tema di stretta attualità.

Dopo un anno e mezzo di pandemia, che ha funzionato da evidenziatore di tutte le insostenibili contraddizioni del modello capitalistico, prefigurando la necessità di una radicale inversione di rotta per uscire dall’economia del profitto e costruire la società della cura, ci ha pensato il governo Draghi a rimettere l’acqua nel mirino della valorizzazione finanziaria, con un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) di nuovo fondato su crescita, competitività e concorrenza, nel quale si parla del servizio idrico unicamente in termini di aziendalizzazione, finanziarizzazione e privatizzazione.

Per questo la piazza di ieri non va guardata al passato, perché parla al presente e al futuro di tutte e tutti noi. Dentro l’enorme diseguaglianza sociale e la drammatica crisi climatica che stiamo attraversando, e che la pandemia ha solo reso manifesta, un futuro è possibile solo a partire dal paradigma della cura.

E tutti sappiamo che senz’acqua non c’è cura.