In ordine sparso, di Lorenzo Mari (Galaad, pp. 146, euro 15), sta a metà tra la raccolta di racconti e il romanzo. Potremmo anzi dire che è una raccolta che si rifiuta di vincere la forza centripeta delle singole storie ambientate nella località di P***. Come fili sottili le vite dei numerosi personaggi si intersecano, percorrono le stesse strade, attraversano gli stessi boschi, si annodano intorno a paure simili senza però intrecciarsi in un’unica trama. Le loro voci formano solo debolmente un coro collettivo.

IL LORO RACCONTO vive infatti su traiettorie temporali distaccate, separate, che Mari traccia lungo una prosa piana, semplice, a tratti lievemente ironica e dai contorni smussati per lasciare che i contrasti restino appena accennati sotto la superficie della parola. Questa forma di aposiopesi e di rinuncia al romanzo non è reticenza o impotenza narrativa. Nasce da una parola che vive nelle proprie maglie la crisi del simbolico e che rifugge dalla velleità di ricomporre arbitrariamente la scissione tra la vita e le sue immagini, tra il suo fluire e la persistenza del suo ricordo.

In questo ha contato molto la formazione di Mari, autore di diverse raccolte poetiche. Anche la sua prosa conserva un’attitudine analitica, uno sguardo che consente di ritrovare i segni, le tracce e le immagini non ancora sepolte dal tempo. Emergono così nei suoi racconti diverse figure immaginarie, miti locali e intimi, come quelli dell’orsolupo o dei tredici pavoni superstiti: residui di una memoria incompiuta, di un passato che non torna e che tuttavia non riesce a trovare la propria collocazione storica, un ordine che non sia disgregato, che non sia sparso.

IL NON-ROMANZO di Lorenzo Mari in più punti esprime la condizione di impossibilità di dare a quelle vicende e a quei personaggi un’unica dimensione temporale. Non si contano i riferimenti a date, allo scorrere dei minuti, al passare delle ore, dei giorni, così come degli anni e delle illusioni. Ogni azione è ossessivamente fissata in un prima e dopo le cui diramazioni, tuttavia, portano fatalmente a un punto cieco, a una connessione mancante che impedisce al tempo di farsi Storia e all’insieme dei racconti di farsi romanzo.

Lo si osserva nelle pagine che ricordano Sandro e Giuseppe e il loro diverso modo di vivere i conflitti contro i proprietari terrieri in odore di fascismo durante quegli anni Settanta più volte evocati. La loro memoria non si innerva nella storia locale di P***. Resta sospesa, in attesa di eredi, senza alcun compiacimento postmoderno né entusiasmo per la frammentazione. La forza centrifuga, che frammenta e scaglia in un altrove le singole storie raccontate da Mari, non cancella dunque il bisogno del conflitto sociale, mostra anzi l’urgenza della lotta, dello sforzo per elevare il tempo individuale in tempo della Storia.