Cultura

In Oman è l’amore la chiave che porta alla sovversione

In Oman è l’amore la chiave che porta alla sovversioneParticolare da un'opera di Klay Kassem

Narrativa araba «Corpi celesti» di Jokha Alharthi, per Bompiani. ‘Abdallah ha moglie, tre figli, una bella casa e un buon lavoro: può dirsi fortunato. Ma ha un dolore dentro perché sua madre è morta pochi giorni dopo il parto. Forse per mano di una jinn (uno spirito maligno al femminile), forse avvelenata da una rivale in amore, forse vittima di un delitto d’onore dopo essere stata vista conversare in giardino con uno schiavo

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 21 gennaio 2022

«Stare lontano da casa permette di conoscersi più a fondo, proprio come fa l’amore», afferma ‘Abdallah nel romanzo Corpi celesti di Jokha Alharthi (Bompiani, pp. 260, euro 18). Qualche pagina più in là, il protagonista ricorda il padre «spirato all’ospedale al-Nahda il 26 febbraio 1992 quando Muhammad, il mio bambino con problemi di autismo, aveva un anno».

‘ABDALLAH ha moglie, tre figli, una bella casa e un buon lavoro: può dirsi fortunato. Ma ha un dolore dentro perché sua madre è morta pochi giorni dopo il parto. Forse per mano di una jinn (uno spirito maligno al femminile), forse avvelenata da una rivale in amore, forse vittima di un delitto d’onore dopo essere stata vista conversare in giardino con uno schiavo. A crescere il figlio è stata la serva Zarifa, a lungo concubina del padre Sulayman, un uomo dispotico tant’è che ‘Abdallah è un individuo vulnerabile e la sua storia ben dimostra come il sistema patriarcale possa danneggiare anche i maschi.

SIAMO NEL PICCOLO PAESE di ‘Awafi, in Oman. Ad animare questa saga familiare sono tanti personaggi. Tra le donne vi sono mogli irreprensibili, figlie obbedienti e altre ribelli, zitelle come la zia di ‘Abdallah, beduine seducenti come Najiya soprannominata Qamar (luna) per la sua avvenenza, schiave stremate dalla fatica. Tra le figure maschili: il mercante Sulayman, il capofamiglia ‘Azzan che si lascia sedurre dalla bella beduina, ‘Issa l’Emigrato che torna dall’esilio egiziano, ma anche il fratello disabile di Najiya e il figlio autistico di ‘Abdallah.

Tante figure, le cui vite si intrecciano in queste duecentocinquanta pagine date alle stampe in Italia da Bompiani (pp. 258, euro 18) nella scorrevole traduzione dall’arabo del competente Giacomo Longhi che, a proposito della lingua, spiega: «Jokha Alharthi scrive in un arabo dal tono gentile, che spazia dal registro familiare a picchi di delicata poeticità».

LA LIBERTÀ DI AMARE, il desiderio di cambiamento e la nostalgia per le tradizioni sono i fili conduttori di questo romanzo vincitore del Man Booker International nel 2019 (è stato il primo romanzo arabo a ottenere questo prestigioso riconoscimento) e lo scorso dicembre anche del Prix de la littérature arabe. Qui e là vi sono anche cenni alla schiavitù, abolita in Oman soltanto nel 1970. E pure alla disabilità e, in particolare, all’autismo. Temi tabù in Medio Oriente e nel mondo arabo. Per avere raccontato non solo le luci ma anche le ombre di quel bellissimo Paese che è l’Oman, l’autrice è stata criticata dai suoi conterranei.

CLASSE 1978, Jokha Alharthi ha studiato dapprima in patria e poi a Edimburgo, dove ha conseguito il Master e il dottorato in poesia araba classica. Tornata in Oman, insegna letteratura araba alla Sultan Qaboos University, non lontano dalla capitale Mascate. Se in tempo di pandemia stare lontano da casa è complicato, il suo romanzo permette di viaggiare nel tempo e nello spazio, immergendoci in un mondo dove l’esotismo lascia – pagina dopo pagina – campo libero alla modernità e alla globalizzazione.

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