Quando vengono evocate le cause della dissoluzione jugoslava si dice spesso che i nazionalismi e le isterie identitarie altro non furono che cortine di fumo che permisero alla classe dirigente di rubare meglio. Chi non è d’accordo con quest’affermazione deve avere buone argomentazioni, perché è difficile negare che le accuse di tradimento della patria e di attacchi alla coesione ed identità nazionale non vengano utilizzate ancora oggi da tutti i dirigenti dei Balcani per opporsi ai movimenti che li contestano.

NEGLI ANNI ’90, ai tempi delle prime manifestazioni contro il suo partito, l’Hdz, Franjo Tudjman accusò gli organizzatori di essere degli «jugoslavi» e dei bastardi. Durante il movimento civico del febbraio 2014 in Bosnia Erzegovina i nazionalisti bosniaci dell’Sda dichiararono che le manifestazioni erano «marionette nelle mani dei nemici della Bosnia Erzegovina» o dei nazionalisti serbi. Nel 2018 il movimento “Pravda za Davida” è stato accusato di «azione antiserba» dalle autorità della Republika Srpska (la Repubblica serba di Bosnia). Attualmente l’Sns al potere in Serbia accusa i partecipanti alle manifestazioni civiche che ne contestano il potere di settarismo a favore degli albanesi del Kosovo.

Milo Djukanovic (il presidente montenegrino ndt) resta comunque il grande maestro di questo tipo di retorica. Dalla sua grande mutazione, avvenuta una ventina di anni fa, quando, da più grande sostenitore dell’unione con la Serbia si è improvvisamente trasformato in indipendentista montenegrino, il “gospodar” ha sempre etichettato le manifestazioni contro il suo potere assoluto come «complotto nazionalista serbo». A dire il vero, l’opposizione politica in questo gli ha sempre dato una mano: è infatti spesso stata caratterizzata da un nazionalismo serbo a tratti folcloristico con tanto di sostegno ai criminali di guerra, e questo in effetti ha aiutato a nutrire le argomentazioni di Djukanovic.

APPROFITTANDO di un sentimento identitario ambivalente, che caratterizza la gran parte della popolazione, quest’ultimo ha convinto chi stava dalla sua parte a perdonargli l’atteggiamento dittatoriale proprio ergendosi a difensore di Podgorica dal ritorno di Belgrado. A lungo ha presentato l’adesione alla Nato come protezione su questo tema e, ancor oggi, continua ad utilizzare la stessa retorica. Le proteste in corso attualmente, promosse dal gruppo civico “Resistenza 97.000” a seguito dello “scandalo della busta” cambia le carte in tavola.

(ANTEFATTO. Il cosiddetto “scandalo della busta” è rimbalzato sui media di tutto il paese dopo che il fondatore e presidente del Gruppo Atlas, Duško Kneževic, ha mostrato una videoregistrazione segreta dove si vede che Kneževic consegna una busta con 97.500 euro a Slavoljub Stijepovic, alto funzionario del partito di Djukanovic (Dps), con il quale avrebbe comprato voti per le elezioni del 2016. Da qui il motivo della cifra associata al movimento di protesta che ha iniziato a manifestare lo scorso 2 febbraio).

LA RICHIESTA di dimissioni del presidente Milo Djukanovic, del primo ministro Duško Markovic, del procuratore della Repubblica Ivica Stankovic, del procuratore speciale per il crimine organizzato Milivoje Katnic, del presidente dell’Agenzia anticorruzione Sreten Radonjic, dei membri del consiglio d’amministrazione della radio-televisione pubblica e del suo direttore generale Božidar Šundic vengono dalla base, dal “popolo” senza sostegno logistico diretto dagli “abituali sospetti”, i politici dell’opposizione.

I VISI PIÙ visibili tra chi manifesta sono quelli di giovani, che hanno conosciuto un Montenegro già indipendente. La tradizionale retorica nazionalista, su di loro, non ha alcun effetto. I manifestanti chiedono democrazia e giustizia sociale e non una qualsiasi costruzione nazionale astratta. Si interessano del futuro e non alle interminabili disquisizioni sul passato e così Milo Djukanovic si trova impossibilitato ad accusarli di rappresentare la grande Serbia o di essere dei «Putinofili». Può comunque provarci, ma la maggioranza delle persone non gli crederà.

Il principio dei vasi comunicanti è divenuto un luogo comune nell’interpretazione dei fatti politici della regione. In questo senso il destino di Milo Djukanovic è legato a quello di Aleksandar Vucic, di Milorad Dodik, di Bakir Izetbegovic, di Dragan Djovic e compagnia. Allo stesso modo il destino delle manifestazioni a Podgorica è direttamente legato al destino di quelle in corso e future a Belgrado, Banja Luka, Sarajevo e in altre città della regione.

Il più piccolo stato uscito dalla dissoluzione jugoslava, il Montenegro, è spesso servito da laboratorio per sperimentare un sistema di governo che si è poi allargato agli altri stati vicini, con tutti questi regimi semi-autoritari che posano su una corruzione capillare, sul controllo dei media, l’agitare lo spettro identitario e la divisione sociale in due gruppi che non comunicano, che si odiano e che fantasticano di vendetta ed epurazione.

SE QUESTO SISTEMA fallirà in Montenegro, la caduta sarà più facile anche per gli altri regimi. Se i montenegrini si opporranno all’aggressione passiva del ritornello della «coesione nazionale» e della «lotta contro i nemici», apriranno la strada ad altri.

L’idea della primavera come simbolo di un nuovo inizio è usata spesso, ma non è per questo necessariamente inadeguata. Se la gente capirà che il denaro utilizzato per corrompere e i crediti che si trovano a rimborsare ogni mese (alla Prva Banka, proprietà del fratello di Milo Djukanovic, ndt) sono strettamente collegati, può essere che, quest’anno, la primavera fiorisca realmente. In tutti i sensi e per tutti.

* scrittore montenegrino
(* da Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa , pubblicato originariamente da Javni Servis )