Al suo secondo film americano, dopo Prisoners, il quebequois Denis Villeneuve si tuffa nei neri abissali della war on drugs con Sicario, un feroce poliziesco ambientato, come suggerisce il titolo, sullo sfondo dei massacri da narcotraffico, recentemente riportati in auge anche dall’ultimo romanzo di Doug Winslow, The Cartel, e dall’incredibile fuga di «El Chapo» Guzman da un carcere di massima sicurezza del Messico, due mesi fa. Il milieu e una delle star di Sicario sono gli stessi di Traffic ma, fin dalla scena d’apertura, Villeneuve alza la posta: la sua è una versione concentrata e molto, molto, più sanguinaria del film di Soderbergh uscito nel 2000.

Kate Macer (l’inglese Emily Blunt, consacrata a eroina d’azione in Edge of Tomorrow) è un’agente della squadra rapimenti dell’FBI. La incontriamo durante l’irruzione in una casa dell’Arizona dove si pensa siano imprigionati degli ostaggi ma dove gli agenti scoprono invece dei muri letteralmente imbottiti di cadaveri. Kate non ha nemmeno il tempo di riprendersi dallo spettacolo, che il cortile della casa viene inghiottito da un’esplosione. Quando la polvere e il fumo iniziano a diradarsi abbastanza da permetterle di vedere qualcosa, vicino si suoi piedi è atterrato il braccio mozzo di un collega.

Decisa a trovare i responsabili di quella trappola truculenta, Kate accetta di partecipare a un’operazione paramilitare segreta contro i vertici del cartello di Sinaloa, condotta da un impensabile pool di Texas Rangers, Forze speciali, Cia e da un misterioso messicano che si presenta come un ex procuratore. «Nulla di tutto questo avrà alcun senso per le tue orecchie americane. E dubiterai di tutto quello che facciamo. Ma, alla fine, riconoscerai che avevamo ragione», le dice il taciturno, spregiudicato, Alejandro (Benicio Del Toro –Pablo Escobar in un altro film sulla guerra alla droga) quando Kate inizia ad obbiettare la legalità dei metodi con cui l’operazione viene condotta.                                                                                                                                                                                    

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«Non negartelo, sei con noi perché su a Phoenix non scalfivate nemmeno la superficie di questo problema», gli fa eco Matt Graver (Josh Brolin) che viene dalla CIA (che non potrebbe nemmeno impegnarsi in operazioni su suolo USA come questa). Fino a quando il fine giustifica i mezzi? Quanta violenza è legittima per ottenere giustizia? Erano i temi, insieme quello della vendetta personale, di Prisoners, e che ritornano anche qui, solo su un affresco più vasto e in un formato più dinamico, di genere, abbastanza insolito per il concorso di Cannes, dove il film ha avuto la sua prima mondiale, e un’accoglienza semifredda, la primavera scorsa. Meglio il riscontro dell’uscita USA, una settimana fa.

La bella fotografia in scope di Roger Deakins (il cinematographer dei Coen e di Paul Thomas Anderson) lavora di neri e rossi vischiosi sulle mille sfumature brune del deserto; si apre sul paesaggio sassoso, tormentato, che circonda l’azione, sul totale di una città punteggiata di esplosioni all’imbrunire, per poi tornare spesso a stringere sul volto pensoso, intelligente, di Blunt, su quello indecifrabile di Del Toro, sulla maschera sarcastica di Brolin.

Una prima escursione aldilà del confine di El Paso, a Juárez, viene salutata dall’apparizione di un gruppo di cadaveri nudi appesi a un ponte.

Il messaggio è chiaro: si tratta di un viaggio all’inferno. Villeneuve aumenta la tensione subito dopo, con un gigantesco ingorgo stradale al posto di blocco del confine, in cui la special op americana –con a bordo un prigioniero prezioso- rimane incastrata, esposta all’eventuale all’aggressione del Cartello.

Reclutata per offrire una patina di legittimità alla squadraccia, Kate –attratta dalla sua efficacia ma repulsa dai metodi- è l’occhio dello spettatore e la coscienza del film.
Che nemmeno troppo velatamente aspira, aldilà del suo formato poliziesco pulp, efficiente ed efficace, a suggerire un discorso più ampio sulle guerre americane all’estero («si tratta di un film sui Cartelli ma anche sull’America e sullo scontro tra realismo e idealismo quando si tratta di affrontare problemi di altri paesi» ha detto Villeneuve).
Perché, ricorda il finale di Sicario, anche dietro alle guerre più «giuste» c’è un interesse personale.