Silvano non c’è più. Due telefonate, di Lorenzo e di Fausto, con la voce spezzata e il nodo in gola, mi raggiungono appena arrivato ad Addis Abeba per passare qualche giorno con mio figlio e sua moglie. Io temevo di poterle ricevere, per mio figlio è stato un colpo imprevisto.E si affollano i ricordi e il pensiero va a Santina e a Luca, con un abbraccio affettuoso.

Il giovane economista brillante, l’intellettuale rappresentante della Cgil nel Comitato Nazionale per la Programmazione Economica che avevo incontrato cinquant’anni fa in Sicilia e di cui ero diventato amico, se n’è andato con la signorilità e discrezione che ha contraddistinto la sua vita privata e pubblica.

Davvero Silvano Andriani è un esempio di quella generazione di intellettuali, molti meridionali, che, seriamente impegnati nello studio e nella ricerca e progettazione del futuro, scelsero la sinistra e il sindacato come terreno e strumento della loro azione culturale e politica. Una sinistra e un sindacato animati dalla cultura di classe che li portava ad aprire le porte ai giovani, anche provenienti dagli ambienti borghesi, fuori dall’angustia mortificante dell’egoismo corporativo di certa pseudocultura efficientista e subalterna attuale.

La Cgil, il suo Ufficio Studi diretto da Vittorio Foa e da Bruno Trentin, per non ricordare tanti altri meno noti ma non meno bravi, ne ha accolti e coltivati tanti; oggi si sente la mancanza di quella che era una scuola di vita oltre che una palestra culturale e politica.

Silvano fu studioso e dirigente, capace di confrontarsi ai tavoli della programmazione con Ruffolo, Saraceno, Morlino e ai tavoli di negoziato sindacale con i manager di quelle Partecipazioni Statali che, con tutte le ombre e i vizi accumulati successivamente, avevano fatto dell’Italia il quinto paese industriale al mondo e capace, in settori decisivi, di competere e primeggiare, talvolta, a livello mondiale.
Silvano Andriani ha pensato, studiato e praticato la scienza economica sempre in connessione con la struttura concreta della produzione industriale e con la visione della condizione materiale di uomini e donne in carne ed ossa che ne costituiscono la sostanza.

Questa sua visione lo ha portato a tenere sempre connesso il suo impegno intellettuale e il suo ruolo politico. Dal Psi vicino a Lelio Basso, al Psiup nelle posizioni più aperte alla ricerca e ai movimenti sociali e più critiche nei confronti di quel socialismo reale che portava le truppe dell’Urss a invadere Praga, fino alla confluenza nel Pci che compimmo nel 1972.

Capace di coniugare quel suo livello d’impegno nel sindacato e nel partito con quello di animare, insieme a Carlo Cicerchia e Giacinto Militello, quel Centro Studi Marxisti che è stato interlocutore vivace nel dibattito politico e culturale degli anni ’70, con la Rivista Trimestrale di Napoleoni e Rodano e la facoltà di Economia di Modena, mentre ferveva la discussione attorno al tema della trasformazione del valore in prezzi nella occasione della pubblicazione del famoso inedito di Marx.

Quando la Cgil mi chiamò a Roma ho avuto la fortunata ventura di condividere con lui, Carlo, Giacinto, Gino Guerra e altri dirigenti, anni di vita nel villaggio cooperativo di Frattocchie nello spirito di amicizia che caratterizzava l’essere insieme dirigenti di una grande organizzazione e partecipi di modelli di vita improntati alla serietà nello studio ma anche all’allegria delle frequenti riunioni conviviali nelle quali si socializzavano le culture gastronomiche delle nostre diverse provenienze e si misurava la capacità culinaria di ciascuno; Santina eccelleva ma Silvano non era da meno nella preparazione delle pietanze derivate dalle sue origini pugliesi. Era la vita della comunità di Forte Apache, come scherzosamente si appellava il villaggio. Silvano per me è stato anche questo.

Un vero intellettuale e un dirigente politico intelligente, capace di cogliere i segni delle trasformazioni mondiali con largo anticipo. Ne sono testimonianza la sua attività parlamentare e la direzione del Centro Studi di Politica Economica a cui il Pci aveva affidato il compito di sviluppare una visione autonoma della società e del suo divenire, quando la politica era intesa come progettazione e guida per la realizzazione dei principi di libertà, dignità, eguaglianza, giustizia sociale inscritti nella Costituzione.

Anche quando, lasciata la politica attiva nelle istituzioni, dedicò il suo impegno e le sue capacità in incarichi di responsabilità manageriali non abbandonò mai il terreno della indagine economica e dell’analisi sociale. Il suo lavoro sulla finanza e sui rischi connessi alla finanziarizzazione, già nel 2006, anticipava quello che si sarebbe drammaticamente manifestato appena un anno dopo innescando quella crisi e quella ristrutturazione della economia mondiale della quale non si intravedono gli sbocchi positivi ma si leggono drammaticamente le pesanti ricadute sociali in termini di disoccupazione, peggioramento della qualità della vita di masse enormi della popolazione specialmente nell’occidente europeo, svuotamento pericoloso della democrazia rappresentativa in favore di gestioni tecnocratiche nelle mani delle elites nazionali ed internazionali sorde verso le domande di libertà e giustizia che provengono dalle popolazioni.

Lo incontrai un mese fa alla presentazione del libro di Piketty; era consapevole e voleva trasmettere fiducia e serenità. Ci tenne, quasi a commento del volume che era stato appena presentato, a ricordarmi le letture e gli studi di Forte Apache. Adesso si studia poco e quelli che studiano fuori dal pensiero unico del potere sono considerati visionari, conservatori passatisti. Per Silvano questo era inaccettabile e volle dirmelo con quel richiamo.

Conoscere quest’uomo, la sua vita, il suo lavoro, sarebbe un insegnamento grande, un arricchimento per quelli delle nuove generazioni che hanno voglia di progettare il futuro e non esserne vittime.