La giunta della Regione Lazio ha approvato ieri una delibera che apre anche ai medici stranieri la partecipazione ai concorsi pubblici, ma solo per gli incarichi a tempo determinato. La norma riguarda i medici già in Italia da 5 anni e iscritti all’ordine professionale. «Siamo in guerra e vanno utilizzate tutte le forze disponibili la cui professionalità è riconosciuta dall’iscrizione all’ordine professionale» dice l’assessore alla salute Alessio D’Amato.

Sarà solo una misura emergenziale e limitata a una regione. Il problema della carenza dei medici però in Italia è strutturale. Lo dimostra il fatto che, pur con l’80% della popolazione vaccinata, ogni ondata di Covid costringe gli ospedali a sospendere l’attività ordinaria per mancanza di risorse. Aver raddoppiato i posti letto in rianimazione non significa aver moltiplicato anche la capacità assistenziale. Perché oltre ai letti servono i medici intensivisti e gli infermieri, che invece sono rimasti all’incirca gli stessi. Tenendo conto dei pensionamenti e dei nuovi specialisti attualmente in formazione, il sindacato degli rianimatori e dei medici di emergenza Aaroi-Emac prevede che nel 2025 in terapia intensiva ci siano addirittura 500 operatori in meno di oggi.

Aumentare il numero di anestesisti nell’immediato non è facile, perché formare un medico richiede cinque anni di specializzazione post-laurea. Ai concorsi, soprattutto nel sud, partecipano spesso meno candidati dei posti disponibili. L’unico modo di aumentare nel breve periodo il numero di specialisti di terapia intensiva e di altri reparti è assumerne dall’estero. Ma in Italia si fa pochissimo. Secondo le statistiche Ocse, i medici formati all’estero sono lo 0,9% del totale in Italia. In Francia sono il 12%, in Germania il 13%, nel Regno Unito oltre il 30%. Solo in Turchia, tra i paesi Osce, ci sono meno medici stranieri che in Italia.

I motivi per cui gli stranieri si tengono lontani dall’Italia sono diversi, secondo il segretario dell’Aaroi-Emac Alessandro Vergallo, anestesista agli Spedali Civili di Brescia. «Innanzitutto, a parità di condizioni in Germania o in Francia si guadagna circa il 50% in più», spiega. «Poi ci sono maggiori rischi di contenziosi legali: da noi le cause sono più frequenti e l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo in cui si rischia un processo penale. Infine, la norma europea che fissa il riposo minimo per i sanitari da noi è applicata in modo rigido, e questo impedisce agli intensivisti di integrare l’attività ordinaria con quella aggiuntiva». Questi fattori non respingono solo i medici stranieri. «In parallelo c’è un’emorragia di medici italiani, soprattutto verso Francia, Germania e Regno Unito».

A queste condizioni di contesto si somma un’ulteriore barriera. Nei concorsi pubblici per i medici, nella stragrande maggioranza viene richiesta la cittadinanza italiana o quella di un paese dell’Ue. E questo taglia fuori un gran numero di professionisti, che da noi non hanno speranza di fare una carriera nella sanità pubblica. In altri paesi, oltre alla mobilità interna all’Ue, si attirano medici da Paesi più lontani. Nel Regno Unito, quasi la metà dei medici stranieri proviene dal subcontinente indiano. In Francia c’è un importante contributo da Medio Oriente e Nordafrica. La Germania richiama molti medici formati nei Paesi dell’ex-Urss.

Da noi in realtà i medici ci sarebbero, ma sono tenuti ai margini dalle prassi seguite nel reclutamento. «Ci sono circa 77 mila operatori sanitari stranieri in Italia, di cui 22 mila medici» spiega Foad Aodi, medico di origine palestinese e segretario dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi). «Sono tutti iscritti agli ordini professionali, ma solo l’8-10% accede a posti di lavoro pubblici». In realtà, le leggi italiane non prevedono limiti alla cittadinanza dei sanitari. Il testo unico sul pubblico impiego del 2001 pone vincoli solo sulle professioni che riguardano la sicurezza nazionale. Il decreto «Cura Italia» emanato nel marzo 2020 per far fronte all’emergenza va anche oltre, perché ammette esplicitamente alle dipendenze della sanità pubblica «tutti i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare».

Il decreto però è stato ignorato nella grande maggioranza dei casi. Ospedali e Aziende sanitarie hanno preferito mantenere il vincolo europeo per le assunzioni di operatori sanitari. O quello contenuto in un Dpcm del 1994 dichiarato illegittimo ma mai superato, che riserva le posizioni dirigenziali (come quelle dei medici ospedalieri) ai soli cittadini italiani, escludendo perfino quelli europei. Non tutte le regioni, però, hanno applicato le norme protezionistiche. Prima del Lazio, anche Umbria e Piemonte hanno aperto i concorsi ai medici di ogni nazionalità dopo le proteste dell’Amsi. Ma l’intrico delle leggi sembra fatto apposta per respingere.

«Il risultato è una fuga di medici dall’Italia» dice Aodi. «Qui spesso si confondono i requisiti di qualità, come l’abilitazione, con la nazionalità. La Francia, invece, ha dato il passaporto francese ai medici stranieri che hanno aiutato durante la pandemia». L’Amsi considera la delibera del Lazio «un passo in avanti» ma ora l’obiettivo è il decreto Milleproroghe. «Il governo – chiede Aodi – si impegni a vigilare affinché il testo unico e il decreto Cura Italia vengano rispettati».