Basta la parola «carbone» presente nel piano Von der Leyen per farlo declinare all’italiana in «vertenza ex Ilva».
Dei 7,5 miliardi di euro in dote al piano Just Transition Fund (Fondo per una transizione equa) quanti arriveranno in Italia? Le previsioni sono assai divergenti. Se il presidente del parlamento europeo David Sassoli si è lasciato andare in ottimismo parlando di ben «4 miliardi», voci più accreditate a Bruxelles parlano di non più di 400 milioni: esattamente un decimo.
Come in occasione del piano Juncker per gli investimenti del 2014 la moltiplicazione degli zeri è semplice: basta dire che si tratta dei «fondi mobilitati» che «sommano dote finanziaria diretta e capitali privati» e il gioco è fatto. Così – tramite la immaginifica «leva finanziaria» – si arriva in fretta ai fantasmagorici «mille miliardi di investimenti verdi nei prossimi dieci anni». Peccato che già nel 2015 si era capito che il piano Juncker era una bolla di annunci senza alcuna reale applicazione nell’economia reale e ancor meno posti di lavoro creati.
Perché finisca meglio questa volta serve sperare nella reale volontà politica e nella diversa struttura applicativa immaginata da Von der Leyen.
A rimettere gli zeri a posto ci ha pensato subito il commissario italiano Paolo Gentiloni che ha parlato di «centinaia di milioni» per l’Italia, ammettendo di non poter essere per il momento più preciso. Per lui il meccanismo Ue per una «transizione giusta» «può certamente riguardare l’Ilva, la Puglia e la zona di Taranto è la tipica manifestazione, come il Nord della Macedonia o altre di regioni europee, dove è necessaria la transizione a energie che usano meno intensamente il carbone. Questo non vuol dire che problemi dell’Ilva saranno risolti dal Just transition fund». Il nuovo fondo comunque «aiuterà non solo in termini di disponibilità di fondi per la transizione ambientale, ma anche la possibilità nelle prossime settimane e nei prossimi mesi di modificare alcune regole sugli aiuti di Stato, e per ora di interpretarle nel modo più flessibile possibile, che è una delle condizioni perché le difficoltà dell’Ilva vengano risolte».
In questo modo l’ingresso dello Stato o di sue aziende interamente partecipate nel capitale della newco in cui gli indiani di Mittal saranno affiancati sarà più semplice, sebbene decisiva sarà la scelta delle banche creditrici – Intesa in testa – di convertire i crediti in capitale.
Nei fatti, il fondo – la cui proposta sarà oggetto di un iter legislativo – dovrà servire ai paesi più inquinanti per finanziare la transizione e per renderla la più equa da un punto di vista sociale. I paesi saranno chiamati a presentare progetti infrastrutturali. Questi dovranno essere approvati dall’esecutivo comunitario. «I progetti riguarderanno precise zone territoriali, più precise di quanto non avvenga oggi per quanto riguarda i fondi di coesione».
I criteri dovrebbero essere il livello di lavoratori impiegati nel settore minerario di carbone e lignite, l’intensità di carbonio e quindi di emissioni di Co2, il livello di produzione di torba. Così, oltre all’Ilva e a Taranto, il fondo potrà essere utilizzato in Sardegna, sede del polo petrolchimico di Porto Torres e dove c’è tutto il tessuto sociale ed economico delle miniere da sostituire. E poi anche Piemonte e Lombardia: le due regioni con la maggior concentrazione di tessuto industriale, e quindi con più emissioni.