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In Iraq nuovo premier, stessa protesta: «Rigettato dal popolo»

In Iraq nuovo premier, stessa protesta: «Rigettato dal popolo»Il volto del neo premier Allawi barrato con una x rossa dai manifestanti a Baghdad – Ap

Rivoluzione Baghdad nomina Allawi, la mobilitazione popolare non si ferma. Al-Sadr ri-cambia casacca e invia i suoi a reprimere i manifestanti. Nel sud scioperi e strade bloccate. Cresce il bilancio delle vittime: 600 uccisi, 72 spariti

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 4 febbraio 2020

«Rigettato dal popolo». È la risposta della mobilitazione irachena al nuovo primo ministro, indicato dal parlamento e nominato dal presidente della Repubblica nel fine settimana. È stata inviata da decine di migliaia di manifestanti in piazza Tahrir a Baghdad e in quelle del sud del paese sotto forma di manifesti con la foto del prescelto barrata con una x rossa.

Lui si chiama Mohammed Tawfik Allawi, ex ministro delle comunicazioni sotto il settarissimo governo al-Maliki. Erano gli anni della repressione governativa della minoranza sunnita, punita per Saddam prima e per al Qaeda dopo.

Ovvia, dunque, la reazione della mobilitazione popolare, prevalentemente sciita ma tanto impregnata di aspirazioni anti-settarie da rigettare in toto quella che ritiene l’ennesima imposizione dall’alto. Un primo ministro nominato dai partiti che da mesi si arrampicano sugli specchi pur di non ascoltare la piazza: «Nominando Allawi, il governo ha calpestato le richieste del popolo, continueremo a manifestare», dice da Bassora a Middle East Eye Mohammed, 25 anni, il giorno dopo la nomina che vorrebbe mettere fine a due mesi di stallo politico, con il premier dimissionario Abdul Mahdi ancora al suo posto.

Non ascolta nemmeno Moqtada al-Sadr. Il leader religioso sciita da mesi transita da una parte all’altra della barricata. Prima a difesa del governo (di cui è parte, avendo vinto le elezioni del 2018), poi della protesta, andando lentamente a infiltrarsi nel presidio di piazza Tahrir e impossessandosi di punti strategici per la sua difesa.

Ora difende di nuovo il governo: dopo aver inviato i suoi sostenitori a protestare contro diseguaglianze e corruzione, ieri ha indicato in Allawi l’uomo perfetto (dopotutto lo ha indicato la sua lista, Sairoon, e quella delle milizie sciite, al Fatah), e ha consigliato «alle forze di sicurezza di fermare chiunque chiuda le strade e al ministro dell’educazione di punire chi sciopera nelle scuole, siano studenti o insegnanti».

E infine ha invitato i manifestanti a tornarsene a casa, per poi fare altro tipo di pressioni mettendo i suoi a disposizione della polizia: i «cappelli blu», milizie sadriste legate alle Brigate della pace (l’ex Esercito del Mahdi), hanno attaccato con armi da fuoco le proteste a Najaf e Hilla ferendo alcuni manifestanti.

Violenze seguite ai brutali sgomberi dei presidi permanenti, nei giorni scorsi, per mano di poliziotti e miliziani sciiti, effettuati dopo il puntuale ritiro dei sadristi.

Per Allawi si felicita anche l’Iran, governo ombra di Baghdad. Tanto basta alle piazze per insistere sul no: «Barham (Salih, il presidente, ndr) ci ha tradito nominando chi ha rigettato le proteste», dice il 33enne Ali da Nassiriyah.

E così domenica e ieri sono stati giorni di rinnovata protesta nella capitale, a Najaf, Diwaniyah, Hillah, Bassora. Strade occupate e scioperi, scuole e università chiuse. La convinzione prevalente è che anche Allawi sia figlio di un diktat iraniano. Lui prova a mostrarsi empatico: «Se non siete con me – ha detto sabato in un video diretto agli iracheni – non sarò in grado di fare nulla».

Da fare c’è un governo: secondo la costituzione (quella che la mobilitazione vuole cambiare perché fondativa del sistema di potere settario), il premier ha un mese per formare un esecutivo e ottenere la fiducia del parlamento.

In tanti immaginano il ripetersi dell’identico immobilismo del suo predecessore, prodotto delle rivalità tra le varie fazioni sciite, e l’incapacità di reagire sia alla mobilitazione sociale, economica e politica iniziata il primo ottobre scorso sia alla crisi Iran-Usa che ha scelto l’Iraq come campo di battaglia.

È in tale contesto di caos politico e miseria crescente che giunge il bilancio, mai commentato dalla politica irachena, degli uccisi nella repressione: per l’Independent High Commission for Human Rights irachena, sono almeno 556; oltre 600 secondo Amnesty. Ventimila i feriti. A questi si aggiungono 72 attivisti scomparsi dal primo ottobre a oggi.

La richiesta d’aiuto è partita a fine gennaio: bandiere dell’Onu sul Turkish Restaurant, il palazzo occupato a piazza Tahrir, e sventolate dai manifestanti per chiedere protezione.

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