Se nel 2013 l’elezione di Hassan Rohani alla presidenza è stata un’importante svolta per la Repubblica islamica, la firma dell’accordo sul programma nucleare nel 2015 e la vittoria dei moderati sui conservatori alle ultime elezioni (30 seggi a zero a zero a Tehran) concludono un ciclo per aprirne un altro.

Gli anni dell’egemonia conservatrice, simboleggiata dalla presidenza di Ahmadinejad e dall’irresistibile potere della Guida suprema Ali Khamenei, sembrano aver lasciato posto a una nuova fase. Sebbene il potere di Khamenei resti enorme, le elezioni hanno consegnato le istituzioni più importanti del paese a una nuova egemonia, moderata e timidamente riformista in politica interna, neoliberista in politica economica e pragmatica in politica estera. La vittoria dei moderati al parlamento e all’Assemblea degli Esperti (l’istituzione che sceglierà la prossima Guida suprema e che avrà quindi da giocare un ruolo cruciale nei prossimi anni) consolida questa egemonia, dandole non solo potere istituzionale ma anche l’opportunità di prendere decisioni e darvi corso senza dover resistere alla fiera opposizione conservatrice. Tale consolidamento sembra confermato dai dati relativi all’affluenza dei votanti che, secondo le cifre disponibili, non è stata particolarmente ampia (62%).

Nella storia della Repubblica islamica dalla fine della guerra con l’Iraq in poi, i conservatori sono stati sconfitti alle urne durante elezioni con un’affluenza molto ampia. Queste elezioni sembrano quindi indicare che l’egemonia moderata è salda anche all’interno della società, che vota moderato senza bisogno di una mobilitazione elettorale massiccia. Due elementi sono stati cruciali nell’ascesa e nel consolidamento sociale di questa egemonia. Innanzitutto, i successi in politica estera di Rohani e del ministro degli Esteri Javad Zarif hanno allontanato (per adesso, più un wishful thinking) lo spettro delle sanzioni e della marginalità internazionale.

E in secondo luogo, il disordine regionale rende l’Iran una «isola di stabilità» necessaria, consolidandone lo status quo e quello che si potrebe chiamare «il partito della nazione» iraniano, ovvero il partito «della moderazione e della speranza», usando uno slogan elettorale di Rohani, e chiudendo così gli scenari di cambiamento politico esterni a tale progetto politico-istituzionale. Il rilancio dell’economia nazionale attraverso politiche economiche di stampo neoliberista, con l’attrazione di investimenti stranieri, multinazionali (soprattutto nel campo Ict e delle nano-tecnologie) e grandi opere infrastrutturali da realizzare con capitale straniero e nazionale, occupa un posto fondamentale nel dibattito che ha preceduto e che che seguirà le elezioni. La politica economica è stata al centro della battaglia consumatasi tra il precedente parlamento e Rohani.

L’accordo sul programma nucleare ha aperto la possibilità di integrazione dell’economia iraniana nel mercato globale. Nella mia ultima visita in Iran, tra novembre e dicembre, ho avuto notizia che, in soli due giorni, ben cinque diverse delegazioni europee composte da centinaia di businessmen hanno visitato il paese in cerca di nuove opportunità di investimento. L’atmosfera da «corsa all’oro» fomentata dal governo indica che le prospettive di affari sono enormi. Tuttavia, le compagnie nazionali e gli enti para-statali che avevano beneficiato delle sanzioni fornendo servizi e materiali altrimenti vietati, hanno visto la propria posizione di privilegio minacciata dall’apertura economica che sarebbe arrivata con l’accordo.

Il precedente parlamento, contando al suo interno molti deputati legati a tali compagnie ed enti, ha svolto un ruolo di opposizione a Rohani e da maggio in poi, una volta che il nuovo parlamento sarà operativo, non giocherà più. Sebbene nei prossimi anni l’Iran avrà una politica estera retoricamente meno ostile a quella occidentale, accompagnata da una politica economica più allineata ai dettami delle organizzazioni finanziarie internazionali, non vi sono segnali di cambiamento per quello che riguarda la politica interna.

Nelle ultime settimane sono stati effettuati arresti, spesso motivati dalla pressione sentita dai conservatori che ora più che mai hanno ragione per temere la propria marginalizzazione politica, e che vedono nella possibilità di detenere gli attivisti associati con i moderati un modo per riaffermare il proprio potere, a dimostrazione del fatto che espansione del mercato libero e rispetto dei diritti non sono elementi associati. Tra gli arrestati, un nome di spicco è quello di Baqer Namazi, fondatore dell’ong Hamyaran e padre di Siamak, imprenditore iraniano-americano arrestato a ottobre.

Docente Università di Dublino Politics of the Middle East and International Relations