Con la pubblicazione, nel 1912, di The Financier di Theodore Dreiser e, nell’estate dell’anno successivo, di Women As World Builders di Floyd Dell, prese avvio un secolo fa nella metropoli dell’Illinois un movimento letterario a cui i critici diedero presto il nome di Chicago Literary Renaissance. Inizialmente poco noto e spesso ostracizzato dai grandi editori, il Rinascimento di Chicago seppe tuttavia scuotere il panorama letterario dell’epoca, al punto da plasmare, attraverso un realismo crudo e pungente, lo sviluppo della letteratura americana di inizio Novecento.

Theodore Dreisler, Floyd Dell, Sherwood Anderson, Vachel Lindsay e Carl Sandburg furono alcuni dei maggiori protagonisti della «rinascita letteraria», ai quali si aggiunsero anche figure femminile di spicco come Harriet Monroe, fondatrice, nel 1912, della rivista Poetry. Vere e proprie incubatrici del movimento, le riviste specializzate come la Little Review di Anderson, la Friday Literary Review di Dell e la stessa Poetry assunsero un ruolo fondamentale non solamente nel rendere celebri gli scrittori di Chicago sulla scena letteraria nazionale, ma altresì nel creare un trait d’union tra i capofila della Renaissance e molti scrittori europei.

Tra coloro che più si appassionarono alla vasta ed eterogenea produzione letteraria proveniente dal Mid-West americano vi fu sicuramente Cesare Pavese. Appassionato sin da giovanissimo di Walt Whitman e Sinclair Lewis, Pavese si avvicinò presto e con entusiasmo a quel Midland Realism che incominciava lentamente ad approdare in Italia da oltreoceano. Come si evince dai suoi saggi su Anderson e Dreiser pubblicati su La Cultura rispettivamente nel 1931 e 1933, lo scrittore piemontese intravedeva nella produzione letteraria della Chicago Renaissance non solamente una straordinaria opportunità per esplorare nuovi orizzonti letterari, ma altresì un’occasione favorevole per smascherare l’ipocrisia culturale insita al regime fascista.

Come osservò lo stesso scrittore in un suo articolo pubblicato nel 1947 su L’Unità, «verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere ’la speranza del mondo’, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia». Inatteso, l’incontro con l’immediatezza espressiva e con il nativo senso del reale degli scrittori americani rappresentò uno spiraglio di libertà, «il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci».

Benché l’interesse di Pavese non fosse esclusivamente incentrato sugli autori di Chicago ma bensì sulla letteratura nord-americana nel suo insieme, è noto come gli scrittori e i poeti della Chicago Literary Renaissance abbiano avuto un’influenza determinante nella sua formazione di scrittore e di uomo. Non solamente la funzione di contrasto che i romanzi americani ebbero nei confronti della cultura ufficiale italiana fu enorme, ma il carattere innovatore e spesso regionalistico del loro impianto narrativo stimolò in Pavese una smaniosa ricerca di lingua, stili e contenuti nuovi. Focalizzata sul rapporto città-campagna e sulle nefaste ricadute sociali conseguenti all’avvento di un’industrializzazione galoppante in un Mid-West sino ad allora sostanzialmente agricolo e contadino, l’approccio narrativo di molti scrittori della Renaissance rappresentava un’aspra denuncia sociale nei confronti di una società, quella americana, che stava celermente sacrificando la propria identità rurale e i propri valori tradizionali sull’altare delle esigenze del capitalismo industriale. Un j’accuse che, in alcuni frangenti, travalicò i confini del mondo della letteratura e, proprio come avvenne per lo stesso Pavese, spinse alcuni autori statunitensi ad iscriversi a partiti o movimenti politici di massa (Dreiser s’inscrisse al partito comunista americano nel 1945).

Attraverso il realismo espressivo di novelle quali quelle contenute, per esempio, in Winesburg, Ohio (1919) di Anderson, la produzione letteraria della Chicago Renaissance contribuì significativamente a creare il e «mito americano» a cui lo scrittore piemontese diede origine negli anni Trenta durante la sua proficua attività di critico e scrittore. Isolando il Mid-West in una dimensione primitiva e leggendaria del tutto affine al suo Piemonte, Pavese riprodusse, attraverso le raffigurazioni letterarie dei Chicago writers, la rappresentazione dell’eden letterario, creando il mito di una cultura genuina, originale e istintiva, dotata di una energia capace di ridar slancio a una cultura europea ormai giudicata decadente e allo stremo delle proprie forze.

Come ci ricorda Calvino nella prefazione alla raccolta La letteratura americana e altri saggi dedicata allo scrittore piemontese, «i periodi di scontento hanno spesso visto nascere il mito di un paese proposto come termine di confronto, una Germania ricreata da un Tacito o da una Staël. Spesso il paese scoperto è solo una terra d’utopia, un’allegoria sociale che col paese esistente in realtà ha appena qualche dato in comune; non per questo serve di meno, anzi gli elementi che prendono risalto sono proprio quelli di cui la situazione ha bisogno». Divenuto punto di riferimento ed esempio di un realismo che «mira all’uomo integrale», anche l’entusiasmo per il Rinascimento di Chicago non nacque di certo ex nihilo, ma fu bensì figlio di un contesto storico e culturale, caratterizzato dall’oscurantismo e dalla censura dell’epoca. Terminato il Ventennio, infatti, il mito americano di Pavese si «sgonfiò», perdendo così il suo senso originale e assumendo contorni decisamente più negativi.

La Chicago Renaissance, osserva la critica Carla Cappetti, «portò il mondo a Chicago e Chicago nel mondo», al punto di divenire una fonte di ispirazione – quando non un modello di riferimento – per molti scrittori europei. In Italia, nessuno meglio di Pavese riuscì a mettere a fuoco il ruolo culturale e simbolico assunto dalla narrativa americana nell’ingessato mondo della cultura ufficiale fascista. Diventando un paradigma di anticonformismo così come un antidoto a un mondo accademico controllato dal potere, il Medio-ovest finì per assumere i contorni, per dirla con Pavese, «di un gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti».

Insieme a Vittorini, lo scrittore di Santo Stefano Belbo fu colui che importò le paure, i malumori e le denunce degli autori del Mid-West, permettendo al pubblico italiano di specchiarsi in una letteratura nuova e per certi aspetti innovativa. «Per Anderson – scrisse Pavese – il mondo moderno è un contrasto di città e di campagna, di schiettezza e di vuota finzione, di natura e di piccoli uomini. Quanto tocchi anche a noi quest’idea, credo inutile dire».

Quest’anno si è celebrato negli Stati Uniti l’anno della cultura italiana, durante il quale importanti organizzazioni culturali e istituti accademici hanno organizzato convegni e manifestazioni letterarie inerenti agli innumerevoli legami che uniscono l’Italia al paese nord-americano. Tenuto conto della doppia ricorrenza, sembrano essere in molti a credere che un riferimento alla nascita della vague realista della Chicago Literary Renaissance renderebbe un meritato tributo sia agli scrittori protagonisti del movimento sia a uno dei più brillanti rappresentanti del (neo)realismo italiano.