Nulla avrebbe potuto dare il senso concreto del conflitto globale permanente, più dell’annuncio di un escalation militare nell’anniversario dell’11 settembre. Nessuno sceneggiatore di Hollywood avrebbe però azzardato di immaginare – per eccessiva didascalica ironia – un presidente americano che si rivolge alla nazione a spiegare, in questo giorno, modalità e ragioni di un nuovo intervento in Iraq. Né tantomeno avrebbe voluto farlo Barack Obama.

Il presidente che aveva siglato il ritiro delle truppe da Iraq e Afghanistan, e che si trova ora a vestire i panni scomodi di leader di una nuova ipotetica coalizione di «volenterosi» in azione in Iraq. Obama è stato costretto a farlo dai militanti dell’Isis la cui campagna militare e di propaganda in poche settimane ha preso l’iniziativa, imponendo una nuova «narrazione» al conflitto. Il presidente che a gennaio aveva definito i militanti Isis «una squadra di pivelli» si è trovato spiazzato dalle le esecuzioni in streaming caricate sui social network da Isis.

La sua ammissione il mese scorso di «non avere ancora formulato» una strategia unitaria per far fronte al nuovo estremismo, ha scatenato una tempesta politica in cui paradossalmente alcuni degli attacchi più duri sono provenuti dal suo stesso partito. La senatrice democratica Dianne Feinstein ha sostenuto che «è ora che l’America torni a proiettare forza e influenza». Maureen Dowd, autorevole columnist del New York Times, ha tacciato il presidente di colpevole ignavia, un razionale distacco che rasenta l’indifferenza. È stato anche questo contesto politico, surriscaldato dalle incipienti elezioni midterm a forzare la mano del presidente.

Il suo discorso è stato programmato in prima serata TV, dunque nella notte italiana a giornali già «chiusi», ma la sostanza è stata nota sin dal comunicato conclusivo del vertice Nato. Nel pacchetto di Obama per «degradare sistematicamente le capacità operative dei militanti islamici» c’è l’intensificazione dei bombardamenti sui territori occupati dall’Isis in Iraq, non più solo a presunta «difesa di personale americano». La protezione di infrastrutture come la diga di Mosul, la continuata assistenza alle milizie curde impegnate in prima linea contro gli integralisti e il proseguimento della consulenza militare fornita al governo di Baghdad.

Da questa settimana quel governo è guidato da Haidar al-Abadi, succeduto al fantoccio sciita Al Malaki, istallato dagli Americani salvo aver esacerbato per anni le divisioni settarie spingendo molte tribù sunnite nelle braccia dell’Isis – una vicenda indicativa della pesante mano americana nella regione e delle sue tragiche conseguenze. Eppure il piano Obama presentato ieri si basa in sostanza sul solito copione di ingerenze incrociate e alleanze opportuniste -utili fin quando non si ritorcono contro I propri interessi. Come già fu coi Mujahideen e Al Qaeda, è difficile immaginare l’emergere dello stesso Isis senza le interferenze americane dell’ultimo decennio.

Nel copione Obama c’è l’obbligatoria precisazione che il piano non prevede l’invio di truppe da combattimento in Iraq e quindi «non costituisce l’inizio di una nuova guerra irachena» come quella scatenata da Bush nel 2003.
Ma già ieri John Kerry, a Baghdad per presentare il progetto al nuovo governo, ha lasciato aperto uno spiraglio puntualizzando: niente soldati usa «salvo drastici cambiamenti». «Quasi ogni paese del mondo ha un ruolo da ricoprire nell’eliminazione dell’Isis e del male che rappresenta» ha aggiunto il segretario di Stato ribadendo che la «nuova» strategia è predicata sulla formazione di una ampia coalizione internazionale e regionale .

Nella realtà è difficile discernere come il nuovo piano Obama differisca dalla solita successione di alleanze di comodo comprate a suon di dollari che hanno determinato una realtà di inestricabili conflitti alimentati da interessi incrociati.

Particolarmente emblematico il capitolo Siria in cui le operazioni potrebbero ora espandersi al di la delle operazioni Cia già da tempo operative per addestrare e fornire di armi leggere a combattenti identificati come «moderati». Nel groviglio siriano, eventuali bombardamenti dei ribelli Isis costituirebbe di fatto un assist al tiranno Assad fino a ieri nemico ufficiale degli interessi americani. Un paradosso amplificato sulla scacchiera regionale dove l’improvvisa ascesa di Isis ha rimesso in gioco rivalità e alleanze pilotate da potenze sciite e dalle dittature sunnite del Golfo.

Un nuovo scenario in cui perfino la collaborazione fra il Grande Satana e la Canaglia Iraniana diventa improvvisamente possibile. Tutto senza risolvere davvero le ostilità fra sciiti, sunniti e curdi oltre a quelle etniche e tribali alla base del conflitto regionale esacerbato dagli interventi americani.
In questo contesto la nuova strategia americana rischia semplicemente di sancire una nuova fase di un conflitto sempre più effettivamente infinito in cui per ora sono decisamente gli «integralisti» a dettare l’iniziativa.