Ogni dramma ha le sue rotte. E’ sempre successo così con il flussi di immigrati diretti verso le nostre coste. Abbandonata ormai quasi totalmente Lampedusa come punto d’approdo, le «strade» percorse da quanti partono oggi dall’Egitto puntano sempre verso la Sicilia, ma stavolta scelgono come punto di arrivo la costa Sud-Est dell’isola, da Siracusa a Catania, anche se non mancano i casi di barconi arrivati in Calabria. E’ la nuova rotta della disperazione, più diretta e quindi preferita dagli scafisti che, come sempre, approfittano di guerra e miseria per incrementare i propri affari. E Portopalo, Capo Passero, Aci Castello, Noto, Marzamemi, una frazione di Pachino, sono i nuovi nomi segnati sulle carte nautiche dei trafficanti. E infatti è proprio lungo quel tratto di costa orientale della Sicilia che si registrano gli sbarchi degli ultimi giorni, compresi i quasi 300 disperati arrivati ieri: 100 ad Aci Castello, nei pressi di Catania, 150 sulla spiaggia di San Lorenzo, tra Pachino e Noto. Fino a non molto tempo fa Lampedusa era il punto d’arrivo dei barconi in partenza dalla Libia e dalla Tunisia. E a bordo si trovavano soprattutto eritrei e somali, in fuga da fame e guerra ma anche dalle persecuzioni di Gheddafi (anche ieri sull’isola è arrivato un gommone con a bordo 77 africani, ma si tratta ormai di un’eccezione). Quando nel 2008, in seguito al Trattato di amicizia tra Italia e Libia voluto dal governo Berlusconi venne chiuso il Canale di Sicilia, i trafficanti furono costretti a tracciare nuovi percorsi che arrivassero in Europa. E la scelta fatta all’epoca fu quella di riaprire le vecchia rotte percorse negli anni ’90 dai curdi, passando per Turchia e Grecia per arrivare fino in Puglia. Inventando anche nuovi e sofisticati modi per far viaggiare gli immigrati. Come, ad esempio, noleggiare lussuose barche a vela le cui stive venivano riempite fino all’inverosimile di uomini, donne e bambini. La crisi egiziana e prima ancora quella siriana, hanno ridato vita ai viaggi della speranza. Che finora, va detto, riguardano più i siriani, ormai da due anni in fuga dalla guerra civile, che gli egiziani. A differenziarli non è solo il numero, i siriani sono molti di più, ma la composizione dei gruppi in fuga: famiglie siriane, a fronte di maschi egiziani, spesso minorenni, che viaggiano prevalentemente da soli e, in molti casi, che fuggono per evitare possibili persecuzioni religiose. Come dimostrerebbero le croci copte trovate tatuate sulle braccia di molti dei giovani egiziani arrivati in questi giorni. E’ difficle, però, che le fughe di queste ultime settimane si trasformino in un prossimo futuro in un’invasione, come già qualcuno va dicendo. Come spiega infatti l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, legale dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione «queste persone non si trasferiscono in Europa facilmente, ma preferiscono piuttosto aspettare e vedere cosa succede nel loro Paese, nella speranza di potervi ritornare». La guerra civile in corso in Egitto ha comunque cambiato qualcosa. Fino a soli pochi mesi fa gli egiziani che arrivavano in Italia venivano rimpatriati al massimo dopo 48 ore, e questo sulla base di quanto prevede un accordo bilaterale tra l’Italia e l’Egitto. Accordo che oggi, con i feroci combattimenti che ogni giorno insaguinano l’altra sponda del Mediterraneo, chiaramente non può più essere applicato, aprendo così a ogni egiziano la possibilità di richiedere asilo politico. Nonostante questo nei centri di identificazione sempre più immigrati si rifiutano di farsi prendere le impronte digitali e, quindi, di farsi identificare. Il motivo è semplice: evitare di essere riportati in Italia se, una volta riusciti a raggiungere un paese del Nord Europa, dovessero essere fermati dalla polizia. «In base al regolamento Dublino 2 – prosegue Paleologo – un immigrato irregolare viene infatti rimandato nel Paese dell’Unione europea in cui è arrivato per la prima volta». E questa è l’ultima cosa che molti di loro vorrebbero.