Shinji Aoyama e Kiyoshi Kurosawa sono i due nomi dall’estremo oriente che più spiccano nel concorso internazionale del Festival di Locarno di questo 2013. Non nuovi alla presenza nella manifestazione svizzera e più in generale ai circuiti festivalieri europei, i due registi, seppur seguendo percorsi molto diversi, non va dimenticato che Kurosawa si è formato nel genere softcore del pink eiga, entrambi hanno conosciuto popolarità e gloria internazionale soprattutto nella seconda metà degli anni novanta, un periodo molto fertile e creativo per il cinema nipponico, che molti hanno battezzato una sorta di nuova onda. Nel nuovo millennio poi il percorso di maturità artistica dei due autori si è raffinato ed è sbocciato in una serie di altri film e specialmente con due dei lavori per cui sono ancora oggi più ricordati, almeno in Europa, Aoyama con Eureka del 2001 e Kurosawa con Tokyo Sonata del 2008.

Dopo il non troppo riuscito Tokyo Park, presente proprio qui a Locarnodue anni or sono, una sorta di Blow Up ambientato ai nostri giorni, Aoyama presenta in questa edizione della manifestazione, Backwater con cui ritorna a toccare temi più espliciti che già aveva affrontato nella prima parte della sua carriera come il sesso, la violenza e la loro relazione in contesti familiari in crisi. La storia si sviluppa attorno al diciasettenne Toma, a suo padre e alla sua amante Kotoko con cui un giorno finisce per avere un figlio, lo choc e la sopresa nello scoprire questa relazione cambierà l’atteggiamento di Toma verso la vita e verso l’amore. Con Real invece Kurosawa, dopo il successo di critica del già citato Tokyo Sonata e la serie televisiva Penance passata anche a Venezia l’anno scorso, sembra ritornare al genere o meglio alle atmosfere che lo hanno reso famoso, Pulse e Cure sono solo alcuni dei lavori più significativi che vengono in mente aa questo proposito. Anche questo lavoro si basa su un romanzo, Un giorno perfetto per un plesiosauro, e vede la vita dei due protagonisti, un ragazzo ed una ragazza che si conoscono da moltissimo tempo e ora fidanzati, improvvisamente venir sconvolta da un evento tragico. La donna tentando infatti di suicidarsi rimane in uno stato comatoso da cui non riesce a svegliarsi. Attraverso una nuova pratica medica denominata “sensing” Koichi, questo il nome del ragazzo, riesce però ad entrare in contatto con la mente della ragazza e a cercare così di riportarla allo stato cosciente ed allo stesso tempo anche di scoprire il perchè del suo gesto.

La compagine sud coreana sarà invece rappresentata nel Concorso Internazionale da Hong Sang-soo con il suo quindicesimo film, Our Sunhi, seconda opera ad essere presentata ad un festival europeo importante dopo Nobody’s Daughter Haewon a Berlino lo scorso febbraio. Oltre al debutto del regista Cho Se-rae che con il suo “The Stone” farà parte della sezione Cineasti del Presente, è assai interessante la collaborazione del festival svizzero con quello sud coreano di Jeonju, i cui lavori finanziati dal festival stesso nel programma Jeonju Digital Project, saranno qui presenti. Cineasti del calibro di Shin’ya Tsukamoto, Naomi Kawase e Lav Diaz, qui a Locarno presidente di giuria, hanno negli anni passati partecipato a questo interessante progetto che cerca di sondare le nuove sensibilità e frontiere poetiche del digitale. Quest’anno gli appassionati di cinema del Canton Ticino potranno vedere gli ultimi lavori, nessuno supera i sessanta minuti di durata, del sino coreano Lu Zhang, dell’indonesiano Edwin e del giapponese Masahiro Kobayashi. Lavoro di respiro internazionale, nel senso meno banale del termine cioè quello che getta luce sulle fratture più che sugli elementi omegenei, si annuncia The Ugly One di Eric Baudelaire, già autore di quel gioiello di Teoria del Paesaggio che è The Anabasis of May and Fusako Shigenobu, Masao Adachi and 27 Years Without Images. Il regista francese prosegue la sua collaborazione con il grande rivoluzionario/cineasta Masao Adachi in un lavoro nato da una storia raccontata dallo stesso giapponese a Baudelaire, Adachi a questo film di 100 minuti ha prestato anche la voce per la narrazione. Sullo sfondo di una Beirut oramai cambiata definitivamente, con la tragedia della guerra civile in Siria a solo pochi passi, quest’opera si presenta come molte cose insieme, una storia d’amore e un racconto di una battaglia politica a metà tra il documentario e il film di finzione ritornando sui temi e sull’estetica che avevano caratterizzato il precedente film di Baudelaire ma in più esplorando due generazioni di cineasti e di impegno politico, i fallimenti ed i loro pentimenti. Sempre di più sembra che l’impossibilità di Adachi di realizzare un nuovo film, vuoi per l’età avanzata, vuoi per la difficoltà a trovare i fondi o per l’ostracismo dell’industria cinematografica verso il vecchio ma mai domo vecchio rivoluzionario giapponese, abbia trovato uno sbocco creativo negli sforzi sperimentali e borderline di Eric Baudelaire. Sicuramente uno dei lavori a cui prestare più attenzione in tutto il festival di Locarno di quest’anno.