Uno dei più originali illustratori di classici e di testi contemporanei è il piemontese Maurizio Quarello, docente all’Accademia di belle arti di Macerata nella cui bibliografia si contengono, fra numerosi altri, i nomi di Stevenson, di Jack London e di Kafka. Il suo segno vivo ed essenziale, virato nei modi immaginosi di un realismo magico, ha avuto la recente consacrazione del Premio Andersen assegnato all’albo ’45 (orecchio acerbo, 2017) in cui rivive, memore di Beppe Fenoglio, l’epica severa e silenziosa di una storia familiare al tempo della Resistenza.

Quarello ha incontrato alcune classi dell’Iis Einstein-Nebbia di Loreto e poi il pubblico dei lettori, negli spazi molto particolari della libreria Passepartout di Recanati. In margine all’incontro, parte del ciclo Catalizzatori di lettura (su progetto finanziato dal Cepell e organizzato dal Teatro 21 di Savona), l’artista ha risposto ad alcune domande.

Come nasce un illustratore?
Ho scoperto già alle scuole materne che mi piaceva disegnare e non ho più smesso di farlo. Poi c’è stata una seconda scoperta, negli anni di formazione, e cioè l’albo illustrato. Ancora oggi, dopo tanti anni di studio e di lavoro, mi ispirano i grandi maestri perché, dico sempre, non si ruba ai colleghi ma proprio ai maestri. Infatti, mi riconosco il solo talento di saper interpretare testi magari molto diversi tra loro ma che sappiano comunque toccarmi. Innanzitutto i classici, per esempio Stevenson, che ho già illustrato e reillustrerò, o Jack London da me amatissimo, e George Orwell di cui mi piacerebbe illustrare La fattoria degli animali, pure se gli editori non annuiscono… Fra i contemporanei prediligo i testi capaci di comunicarmi direttamente qualcosa e mi piacerebbe occuparmene più spesso alternando temi gravi, seri, ad altri più buffi o capaci di far ridere sia i bambini sia gli adulti, perché far ridere è la cosa più difficile. Ho un amore particolare per i testi che raccontano la storia, anche la grande storia ma senza enfasi e senza i moralismi di quelli che pretendono di spiegarti il senso della vita: succede con i libri che non sono troppo descrittivi e lasciano libertà al lettore, perciò anche all’illustratore, cosa che non accade invece con un Italo Calvino, poco incline a lasciare spazio. A me servono gli spazi lasciati vuoti, quelli che al cinema si chiamano dissolvenze, lì posso intervenire.

Quali sono i libri che ha illustrato, prima delle committenze professionali?
Janet la storta di Stevenson avevo cominciato a illustrarlo, per conto mio, molti anni prima di occuparmene per un editore, poi mi ero provato con L’isola del tesoro e con le fiabe classiche come Cappuccetto Rosso, reinterpretata in chiave un po’ grottesca, ai limiti dell’horror, perché nella mia formazione hanno inciso i fumetti e, soprattutto, il cinema. Nelle mie tavole, ci sono molti «movimenti di camera» e l’utilizzo di citazioni come il John Wayne che ho messo nel Richiamo della foresta: fra i miei registi c’è Mario Monicelli, per il quale ho un autentico culto, poi va da sé Stanley Kubrick per come sa costruire lo spazio e utilizzare le luci. Ma ho una predilezione anche per i fotografi, a partire dai francesi come Atget e Doisneau, la cui estetica è anti-barocca e sa cogliere non solo l’alto ma anche il basso dell’esistenza, i fatti della grandeur e pure la vita di strada. E non posso, appunto, dimenticare i fumetti, dico quelli in bianco e nero perché quelli americani a colori non ho mai potuto sopportarli: basti dire che ho la collezione di Martin Mystere sullo scaffale e l’ho riletto anche di recente. Penso in bianco e nero e così disegno lo storyboard che è il primo scheletro del libro o, per dire meglio, ragiono in chiaro/scuro perché costruisco più con i volumi che non con la linea.

Qual è invece il rapporto con il testo scritto o con chi lo scrive al presente? Non somiglia forse a un testo a fronte o al rapporto fra il musicista e il librettista, nel melodramma?
Se si escludono i classici, che esigono un rispetto assoluto, in cui cioè il margine di intervento è limitato e tale deve rimanere, per i contemporanei la strategia può variare. Per esempio L’albero di Anne è la storia di Anne Frank ma vista dall’esterno. Non è lei rinchiusa che segue il passare delle stagioni guardando in prima persona il grande ippocastano dall’alloggio segreto ma, al contrario, è l’ippocastano a guardare dall’esterno e a seguire la vita clandestina di Anne: il testo di partenza era così bello che ho deciso di eliminare ogni colore superfluo, anzi quasi tutto il colore, mantenendo soltanto qualche tocco di rosso o di giallo in ogni pagina.

C’è un dare e un avere dal testo di partenza, come succede in ogni traduzione?
Si prende molto, specialmente dai grandi autori, ma andrebbe sempre fatta una ricerca sulle fonti del libro di cui ci si occupa, uno spoglio della bibliografia. Quando ho illustrato Jack London ho letto tutto quello che si poteva trovare di lui e su di lui. I classici andrebbero accompagnati, non più che accompagnati.

Quali sono viceversa i condizionamenti del mercato e quanto è «libero», qui e ora, un artista illustratore?
La prima cosa, intanto, è non autocensurarsi e non è sempre facile. Poi c’è da tenere presente che non esiste un solo mercato ma ce ne sono molti. Quelli italiani o francesi e spagnoli, ad esempio, sono completamente diversi dal mercato americano dove anche il libro per ragazzi è, al cento per cento, un prodotto per cui non viene richiesto un lavoro creativo all’illustratore ma semplicemente una resa tecnica su quanto è già preordinato in termini di situazioni, personaggi, ottica: insomma, gli americani pagano bene ma non lasciano alcuna libertà. In Italia ci sono più che altro dei tabù, come l’alcol o il fumo nei libri per ragazzi, insieme con la rappresentazione della nudità e della morte. Mi sento un artista sostanzialmente libero da condizionamenti.

Nel suo percorso c’è però un albo che in tutto e per tutto fa eccezione, «’45», un albo che non ha testo scritto …
Sì, i protagonisti sono i miei nonni e, sia pure con alcune piccole licenze poetiche, si tratta di una storia vera, accaduta nella mia famiglia al tempo della lotta partigiana, nel Monferrato. È un progetto che avevo da molti anni nel cassetto ma non volevo affidarne la storia a un narratore estraneo né mi sentivo all’altezza di scriverla io, finché mi è venuta l’idea di un silent book come si dice banalmente in Italia. Ho scritto molto raramente le storie che ho illustrato e, per paradosso, nel momento in cui scrivo di solito non mi viene in mente nessuna immagine. Dunque per ’45 non ho scritto nessuna scaletta, tanto meno una sceneggiatura, tutto è stato lavorato per immagini secondo la tecnica più tradizionale, prima la matita e poi il colore sopra, perché non mi piace lavorare in digitale.
Confesso anche che mi renderebbe felice, prima o poi, vedere le mie tavole tradotte in un film, voglio dire un film non girato da me ma da un altro interprete. Non un’opera di animazione, un film vero e proprio: in ogni caso è tutta quanta la vicenda raccontata in ’45 ad essere percorsa, in sé, dal silenzio, dalla nebbia, da un senso molto forte di partecipazione umana.