«Il mio libro suggerisce che le campagne mediatiche sponsorizzate dal governo a proposito delle donne leftover, fanno parte di un complesso ritorno alla diseguaglianza di genere nella Cina post socialista. Una tendenza particolarmente evidente negli ultimi anni di riforme di mercato». È una frase di Leta Hong Fincher tratta dal libro, recentemente pubblicato, che ha come titolo Leftover Women, the resurgency of gender inequality in China (Asian Arguments, 16,21 euro) nel quale la società cinese viene analizzata attraverso numerose interviste e indagini, arrivando alla conclusione che la Cina vive ancora oggi una profonda diseguaglianza tra uomini e donne, essendo una società basata su fondamenta tipicamente maschiliste. Alcune delle travi che reggono questa tendenza a una rinnovata diseguaglianza di genere appartengono alla storia e alla tradizione culturale del paese. Ma quello su cui l’autrice insiste è che proprio questa «rinnovata» diseguaglianza sia promossa dallo stesso Stato cinese, alla luce delle riforme che hanno portato la Cina ad aprirsi ai capitali «stranieri».

Nel rigoroso libro di Leta Hong Fincher c’è una critica profonda nei confronti di una società che è spesso «manovrata» dalla propaganda di Stato, un ingranaggio perfetto messo in campo per «suggerire» alla popolazione comportamenti specifici su questo o quel tema. A questo va aggiunto un atteggiamento di ostilità statale per chi «devia» dal retto cammino riscontrato anche nel recente caso delle cinque attiviste femministe arrestate l’8 marzo scorso. In Cina ogni vicenda sociale, viene fatta rientrare all’interno della complessa questione del «mantenimento della stabilità». In questo senso, questioni precise, come quelle relative alla diseguaglianza di genere, sono trattate alla stessa stregua di un attivismo che mira a «complicare» la vita ai guardiani del Paese.

La questione di genere viene dunque catalogata all’interno della logica che mira al mantenimento della stabilità e della presunta armonia sociale di una Cina, paese che nel terzo millennio si ritrova ancora intrisa di confucianesimo (e preda di alcuni suoi concetti retrogradi e conservatori). Potremmo evidenziare tre direttrici nel volume: l’analisi del concetto di «leftover», la diseguaglianza di genere, sancita dalla diseguaglianza economica tra i sessi, «promossa» secondo l’autrice dalle politiche del governo; a corollario di ciò c’è la indubbia capacità mediatica del governo cinese di fare presa sulle donne, con lo scopo di mantenere le differenze di genere.

La nozione di «leftover» è complessa. Con il termine si indica solitamente una donna «che avanza», cioè è una donna single in età non più «da marito» perché ha privilegiato altri aspetti della vita. Il tutto contribuisce a creare un quadro nel quale le donne «leftover» vengono descritte in preda al più bieco carrierismo e soggiogate dall’avidità e dall’opportunismo. In realtà, secondo l’autrice, le donne «leftover» altro non sono che una costruzione mediatica per spingere le donne al matrimonio, in un paese che ha un grave disequilibrio tra numero di uomini e donne, anche a causa delle passate politiche di controllo delle nascite, che Pechino ha cercato di modificare solo recentemente con la riforma della legge del figlio unico, in base alla quale le coppie sposate possono avere avere più di un figlio a differenza del passato.

In Cina gli uomini sotto i 30 anni di età sarebbero 20 milioni in più delle donne con le stesse caratteristiche anagrafiche. Uno squilibrio pericoloso per una società percorsa da tante tensioni sociali (la famiglia viene vista come il riparo da strane idee politiche). Non a caso il nuovo presidente Xi Jinping ha insistito molto sul concetto di «famiglia» che finisce per ancorare il ruolo della donna a quello del passato: custode della casa e responsabile dell’educazione dei figli. Un ritorno al passato che non coincide con l’avvenuta emancipazione di molte donne nella società cinese, ma che costituisce la coordinata seguita dal governo per tutto quanto concerne le politiche sulla famiglia. «In un certo senso, scrive l’autrice, le donne «leftover» (shengnu) non esistono. Sono una tipologia di donne sottolineata dal governo per raggiungere i propri scopi demografici e per promuovere i matrimoni, pianificare le politiche della popolazione e mantenere la stabilità sociale».

La campagna governativa contro le shengnu è stata durissima, fatta da editoriali, trasmissioni televisive (con plot prestabiliti), nelle quali era sottolineato che la società cinese non ha alcuna «sintonia» con queste donne e che diventare una «leftover» equivaleva a una sciagura. Nelle sue ricerche e interviste l’autrice arriva al punto: la campagna mediatica e di propaganda del governo ha funzionato. Molte delle donne che la giornalista ha intervistato, si sono dette terrorizzate dall’idea di diventare «leftover», un avanzo della società, nonostante una posizione economica e lavorativa di tutto rispetto (e questo spiega il grande successo delle agenzie di matchmaking cinesi, un mercato immenso). Ma anche sulle questioni economiche, l’autrice del volume non si è fermata alle apparenze. Secondo Leta Hong Fincher, infatti, il vero discrimine tra uomini e donne nella società contemporanea non si riscontra solo e soltanto analizzando la questione economica, bensì insistendo proprio sul «nuovo» concetto – per la Cina – di proprietà. Sono gli uomini, infatti, a porre il proprio nome quando viene comprata, anche in coppia, una casa. L’appartamento, il bene più prezioso per i cinesi, oggi, è proprietà per lo più maschile. E se la crescita cinese si è basata proprio sullo sviluppo del mercato immobiliare, le vere escluse da questo processo di arricchimento, sarebbero proprio le donne (parliamo di un giro d’affari, quello immobiliare in Cina, che a fine 2013 era di circa 30 triliardi di dollari e che ha finito per creare gran parte di quella schiera di uomini etichettati come i «nuovi ricchi cinesi»). A questa situazione avrebbe contribuito e non poco la legislazione cinese (e l’ufficiale All China Women’s Federation, che svolge per le donne lo stesso ruolo che svolgono sui luoghi di lavoro i sindacati) che nelle leggi che regolano il matrimonio consentire all’uomo di detenere il diritto di proprietà, rendendo la vita difficile alle donne che, in caso di divorzio, avessero voluto dimostrare la propria partecipazione all’acquisto della casa. Da quanto emerge dalle ricerche presenti nel volume, però, è un fatto diverso. Grazie anche alla rinnovata presenza delle donne nel mercato del lavoro i patrimoni con cui vengono acquistate le case sono «partecipati» proprio in virtù del salari e dei risparmi delle donne sposate.
Nel capitolo conclusivo del volume, Leta Hong Fincher si concentra sulle «donne che resistono», muovendosi nei meandri lasciati impercettibilmente liberi da uno Stato che pare in grado di controllare tutto. Un capitolo che consente all’autrice di tornare su un argomento che viene trattato in altre parti del libro: le violenze domestiche. Molte delle ong – che in Cina hanno in ogni caso un riconoscimento governativo, pena il rischio di arresti e repressione – e gruppi indipendenti hanno organizzato negli ultimi tempi molte azioni (xingdong) per denunciare il numero spaventosamente alto di violenze domestiche. Sono le stesse donne a preferire l’uso del termine «azione» invece di «proteste», dimostrando che sanno benissimo di avere a che fare con un forte potere statale. Un monolite che talvolta viene scosso nel modo giusto. Ad esempio, un paio di anni fa aveva provocato molto imbarazzo alla Cina la denuncia di una donna americana sposata con un cinese di aver subito ripetute violenze domestiche dal marito, un uomo divenuto una celebrità per le sue particolari lezioni oceaniche di inglese (è soprannominato Crazy English). Fu un caso molto seguito dalla stampa locale, macchiato da un gretto nazionalismo (contro l’«americana») e da maschilismo, ma che ha finito per dare linfa, e speranza di riuscire a denunciare certe situazioni, alle «azioni» di tante donne cinesi.