Le cronache dalle montagne del Cilento hanno spesso come protagonisti i lupi. A gennaio scorso, hanno fatto il giro del web le immagini, catturate di nascosto da un giovane del posto, di tre lupi a spasso sulle montagne di Cannalonga. A febbraio, una fototrappola messa da alcuni pastori tra i boschi del monte Bulgheria ne ha ripreso uno che azzannava una mucca. A giugno, un altro esemplare è stato visto aggirarsi tra le strade di Pollica come un vacanziere qualsiasi. Si legge di intere greggi sbranate e avvistamenti anche in pieno giorno. Andrea D’Ambrosio, che in Cilento è nato e con il quale conserva un legame affettivo, proprio nella prima metà del 2021 ha deciso di mettersi sulle tracce di un animale «che ha un’origine ancestrale e arcaica, proprio come la mia terra», dice. Lo ha fatto insieme a Marco Galaverni, direttore scientifico del Wwf, ricercatore e autore di L’uomo che sognava i lupi (L’Orma editore). Insieme, i due si aggirano tra monti ricchi di bellezze naturalistiche e allo stesso tempo densi di storia, rifugio di briganti e teatro di rivoluzioni mancate, come quella di Montano Antilia che Rocco Scotellaro avrebbe voluto raccontare se la morte non lo avesse sopraffatto appena trentenne e che più di mezzo secolo dopo Mario Martone ha portato al cinema con Noi credevamo.

Dopo Biutiful countri, che raccontava un’altra Campania, quella della Terra dei fuochi piagata dall’emergenza rifiuti, Di mestiere faccio il paesologo nell’Irpinia d’Oriente del poeta e scrittore Franco Arminio, Due euro l’ora, ispirato alla storia vera della morte di due lavoratrici tessili impiegate al nero (una delle quali minorenne) in uno scantinato a Montesano in provincia di Salerno, D’Ambrosio è tornato così a raccontare la sua regione, ancora una volta dal punto di vista socio-ambientale. «Una terra piena di contraddizioni e di chiaro scuri, ma orgogliosa e in parte ancora selvaggia», alla quale si sente tuttora di appartenere. Luoghi come la sua Roccadaspide, un paesino tra i monti Alburni, dove ricorda «il profumo delle castagne e del pane appena sfornato» e come «la sera di fronte a casa mia c’erano le lucciole che cercavo di prendere tra le mani e che si illuminavano come un neon in un bar di montagna», ha spiegato in un’intervista sul Giornale del Cilento.

Ne è nato un docufilm che si intitola Il sentiero dei lupi (finanziato dalla Fondazione con il Sud e dalla Fondazione Apulia Film, con il sostegno di Fondazione Picentia, Iuppiter group e Wwf Silentum), nel quale gli animali diventano quasi un pretesto per raccontare una terra ancora sulla soglia d’ingresso in una modernità che rischia di creare solo disastri, ambientali e sociali.

Il regista cilentano ha seguito il lavoro di Galaverni. Il ricercatore spiega come il lupo sia il fulcro di un ecosistema naturale e quanto sia importante proteggerlo. Racconta come ne sia stata evitata l’estinzione, negli anni Settanta. Ne segue le tracce attraverso le feci, le orme, i peli. Li cerca con le fototrappole e ne imita il verso nella speranza di ricevere in cambio ululati che ne rivelino la presenza nella zona. Una ricerca condotta dal Dipartimento di Biologia dell’Università Federico II di Napoli (coordinato dal professore Domenico Fulgione) ha stimato la presenza di una quarantina di esemplari sparpagliati lungo i 1810 chilometri quadrati del Cilento. Individuarne uno tra complessi montuosi che, come il Cervati, arrivano a sfiorare i duemila metri di altitudine, canyon e strapiombi, colline e distese di uliveti e fichi d’india che arrivano fino al mare, è un’impresa affatto semplice.

Alla fine, la ricerca non produce alcun esito concreto. D’Ambrosio non incontra nessun lupo. Si imbatte invece in diverse figure che sembrano provenire da un’Italia d’altri tempi. Sono pastori, artigiani e resistenti che si ostinano a rimanere laddove la presenza umana è sempre più rarefatta. Come in cima al monte Pruno, dove resiste uno degli ultimi villaggi rurali in Europa, capre, pecore, mucche e tori vivono allo stato brado e Angelo Avagliano fornisce vitto, alloggio e servizio di trasporto a bordo d’asino con quella che, in maniera ironica, definisce «ciucciopolitana». Spuntano personaggi come Giuseppe Spagnuolo, che dal 1997 è l’unico abitante di Roscigno Vecchia, un borgo abbandonato dagli inizi del Novecento e riconosciuto Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. D’Ambrosio fa poi tappa nella piazzetta di Valle Dell’Angelo. Il comune si trova giusto al centro del Cilento, conta poco più di duecento abitanti ed è il più piccolo della Campania. È lontano da qualsiasi rotta turistica e la strada per arrivarci non è delle migliori. Una volta giunto a destinazione, Angelo “Alì” Coccaro lo accoglie nella sua osteria. A Massicelle, 55 chilometri e un’ora e mezza di auto più a sud, incontra invece nella sua bottega Saverio Scanniello, un artigiano che ricava giocattoli, oggetti di vario genere e sculture dalla radica di olivo.

Ne viene fuori uno spaccato d’Italia, e di Campania, insolito e sconosciuto, lontano dagli stereotipi alla Benvenuti al sud che ogni estate fanno riversare migliaia di turisti lungo i cento chilometri di costiera cilentana. «La ricerca del lupo è diventata un espediente per dare voce a un mondo che rischia di scomparire», dice D’Ambrosio. Il film diventa così la fotografia di un Mezzogiorno interno sempre più spopolato e animato da pochi resistenti, «la metafora di un Sud che arranca e che rischia l’estinzione ma che fa di tutto per riprendersi».