«Questo libro è un diario, perché un saggio non può offrire un rendiconto credibile di ciò che penso», così Francesco D’Isa in apertura di L’assurda evidenza (Tlon, pp. 88, euro 13). A prima vista, però, il libro del filosofo e artista visivo fiorentino ha più le sembianze di un saggio che di un diario: mancano le date, poche le digressioni, il linguaggio è preciso, l’incedere rigoroso… Perché, allora, quell’incipit? D’Isa si sta forse prendendo gioco di noi? Oppure già dalle prime righe fa la sua comparsa l’assurda evidenza che costituisce la materia pulsante del libro?
L’enigma inizia a chiarirsi quando D’Isa dichiara quale è il suo strumento – uno «scetticismo inteso come un’apertura al fatto che il mondo possa essere altrimenti» – e quale la sua visione della realtà: «Sono convinto che ogni ’o’ sia una ’e’ e che la negazione non distrugga, ma nasconda».

SE COSÌ STANNO LE COSE, ecco che il diario può assumere fattezze diverse da quelle consuete per trasformarsi in diario filosofico. E, del pari, può nascondere nella negazione la sua natura di saggio, perché, ormai è chiaro, «diario o saggio» e «diario e saggio» sono sinonimi.
È all’interno di questa cornice che si dipana il discorso, sorta di sismografo sensibile che registra la storia di un’anima incarnata. Da un letto d’ospedale, in cui viene ricoverato a 17 anni per una grave malattia e dove si pone la domanda «Perché soffriamo?», D’Isa intraprende un «viaggio» che, attingendo con perizia da diverse tradizioni filosofiche, si snoda attorno a tre assi nevralgici: la presa d’atto che «qualcosa esiste», che «ogni cosa esiste solo in dipendenza dalle altre» e che «ogni relazione è differenza». Tre tappe che rivelano la vicinanza dell’autore all’Object Oriented Ontology, una delle più interessanti correnti del panorama filosofico contemporaneo, secondo cui gli oggetti esistono in relazione tra loro pur mantenendo un lato oscuro e inconoscibile.

IL PERCORSO DELL’AUTORE procede poi, senza esitazione, nella progressiva «esfoliazione delle credenze più radicate», lasciando sul terreno gli assi portanti del nostro modo di pensare (il principio di non contraddizione, l’identità, la causalità, il libero arbitrio), senza tuttavia consegnarsi a un «relativismo radicale», perché «la verità del relativismo non è nella sua tesi, ma nel fatto che qualunque verità è relativa a un criterio mediante il quale giudicarla»: in linea con la fisica quantistica, la realtà esiste ma è mutaforme perché in continua relazione dinamica con chi la osserva.

Nel mezzo del cammino, D’Isa sembra cedere allo sconforto e, con accenti danteschi, afferma: «Ero giunto in un territorio dove non potevo né respirare né camminare». Territorio alieno in quanto caratterizzato dall’assenza di gravità (normalmente sostenuta da ciò che egli stesso ha esfoliato), dalla presa di congedo dall’antropocentrismo (l’umano è un oggetto senza alcuna prevalenza ontologica, dato che emerge come tutti gli altri da reti di relazioni) e soprattutto dalla “scoperta” dell’assurda evidenza: è la realtà a essere «paradossale» e «antinomica».

D’ISA, PERÒ, non si arrende e accetta di esplorare il «panorama senza prospettive» che gli si para davanti. Ed è in questa perturbante insistenza che sboccia un laico quanto salvifico «credo nell’assurdo»: «L’insensatezza è dolorosa solo se giudicata assumendo la prospettiva di qualche ’senso della vita’», altrimenti la «perdita di ogni significato» «è una specie d’innamorata meraviglia», che solo un saggio diario può restituirci, poiché «vivo non significa vero».