Chi pensava che i problemi dell’economia mondiale si fermassero alla sua mancata ripresa (in Europa, a dire il vero, pendiamo ancora dalla bocca di Draghi), dopo il tonfo del 2007-2008, oggi è costretto prendere atto che dietro l’angolo potrebbe esserci addirittura un nuova crisi sistemica.

Un altro terremoto finanziario, il cui epicentro sarebbe di nuovo negli Stati Uniti d’America. Questa volta, però, a dare fuoco alle polveri non sarebbe il settore immobiliare, come dieci anni fa, ma quello energetico.

Osservato speciale è, infatti, il mercato delle obbligazioni legate al comparto dello shale gas & oil, ovvero del gas e del petrolio estratti dalle rocce tramite perforazione idraulica (fracking).

[do action=”citazione”]Il settore petrolifero sta per “bruciare” i mercati mondiali[/do]

Ma andiamo con ordine. Negli ultimi quindici anni, i pozzi di estrazione di shale gas sono passati negli Usa da 20 mila a 300 mila, con una produzione giornaliera di greggio pari a 4,3 milioni di barili, il 50% dell’intera attività estrattiva del paese. Una corsa entusiastica allo sfruttamento di giacimenti petroliferi intrappolati nelle rocce che porterà Obama, un paio d’anni fa, a promettere la totale indipendenza energetica del paese entro il 2035.

Entusiasmo, euforia, fiducia. Gli stessi sentimenti che hanno guidato le scelte, e i calcoli, di tanti investitori, pronti a raccogliere i benefici finanziari di un settore in espansione. Invero, queste aspettative hanno consentito al comparto di drenare ingenti capitali (48 miliardi di dollari solo negli ultimi 4 anni), anche attraverso strumenti finanziari complessi e ad alto rischio, senza i quali sarebbe stato impossibile sostenere attività con costi di produzione a dir poco elevati.

Si è finito, insomma, per gonfiare l’ennesima bolla, che il crollo del prezzo del petrolio ha fatto scoppiare. E negli Usa è tornato l’incubo delle «obbligazioni spazzatura» (junk bond).

Per rendere meglio l’idea di cosa parliamo, basta ricordare che ci troviamo dinanzi ad un comparto nel quale, dal 2003 ad oggi, sono stati investiti oltre 200 miliardi di dollari, tra infrastrutture, tecnologie di supporto ed equipaggiamenti, a fronte di un prezzo del greggio che, nello stesso periodo, da 30 dollari al barile è salito fino a oltre 140 (2008), per poi crollare agli attuali 40.

In sostanza, la proiezione nel futuro dei successi iniziali dell’attività di fracking, vieppiù supportata dall’andamento del costo del greggio, su cui si era basato il comportamento degli investitori e l’ottimismo dei produttori, alla luce delle attuali dinamiche del mercato dei prodotti energetici, si è rivelata del tutto azzardata. E a farne le spese, adesso, sono sia gli uni che gli altri.

Solo nel primo trimestre di quest’anno, sono fallite ben 21 aziende che operano nel settore, con relativo default di titoli obbligazionari pari a 31,4 miliardi di dollari. Un dato da non sottovalutare, che fa il paio con la corsa di molti investitori a disfarsi di titoli considerati ormai «non investment grade», ovvero ad altissimo rischio.

Possibile effetto domino? A questo punto, nessuno è in grado di escluderlo.

Due anni fa, uno studio di JP Morgan sosteneva che se il prezzo del petrolio si sarebbe mantenuto per altri tre anni intorno ai 65 dollari al barile, il 40% delle obbligazioni junk emesse dalle società energetiche Usa avrebbero fatto default. E ora che siamo intorno ai 40 dollari?

Peraltro, la specifica situazione delle aziende e delle obbligazioni americane legate al settore dello shale gas & oil costituisce solo una parte del problema che investe, su scala globale, un sistema finanziario in cui circolano ancora in abbondanza titoli tossici e prodotti a leva (investimenti superiori al capitale posseduto).

Basta ricordare che Deutsche Bank, da sola, ha un’esposizione in derivati pari a 75mila miliardi di euro, venti volte tanto il Pil tedesco!

A gettare benzina sul fuoco – è proprio il caso di dirlo – ci si è messo, da ultimo, il fallimento del vertice tra i paesi produttori di petrolio, svoltosi a Doha lo scorso 17 aprile. Nessun congelamento della produzione, prezzi ancora bassi.

Una guerra che i paesi Opec, trainati dall’Arabia Saudita, stanno combattendo, con successo potremmo dire, contro le potenze petrolifere emergenti, a cominciare proprio dagli Stati Uniti. Se l’obiettivo del cartello, infatti, è quello di strangolare la concorrenza, rendendo insostenibili i costi di produzione, le attuali difficoltà del comparto americano dello shale gas confermano che la sua strategia sta dando buoni frutti.

Il guaio è che in ballo non c’è solo il controllo del mercato del petrolio, ma la stessa stabilità dell’economia mondiale.

Non è un caso, oltretutto, che l’unica a non preoccuparsi più di tanto dalla situazione che si è venuta a creare sia la speculazione, che già alla vigilia del summit del Qatar, scommettendo sul suo fallimento, era pronta a guadagnare, mediante opzioni (derivati che consentono di sfruttare la volatilità dei prezzi di un sottostante), sui probabili, ulteriori, ribassi delle quotazioni del greggio.

Un classico riposizionamento ribassista (cosiddetto short) che, assecondando la tendenza del mercato, può finire per determinarla a sua volta. Con rischi incalcolabili.