Ancora 24 ore. Decisive per il destino del decreto Imu-Bankitalia, e di riflesso anche per la navigazione sempre più tormentata del governo Letta. Che al di là delle “ingerenze esterne” ci sta mettendo molto del suo per affondare prima del previsto. Perché, messe fra parentesi le polemiche di bassa lega ieri in onda a Montecitorio, restano i fatti di un provvedimento sempre più contestato – con puntuali motivazioni – e ora a rischio.

Dopo il voto di fiducia al Senato, di fronte all’ostruzionismo dei 5 Stelle ieri pomeriggio la presidente della camera Laura Boldrini non ha infatti voluto far esordire la cosiddetta “tagliola”, per troncare a-democraticamente la discussione e garantire l’approvazione del decreto entro il termine ultimativo di oggi. Quindi l’aula ha continuato a discutere fino alle 22. E oggi è stata fissata la seduta di mattina, di pomeriggio e di sera.

Non sono solo i pentastellati ad opporsi. Anche Sel e Fdi sono contrari a un decreto che, fin dalla decisione governativa di accorpare due provvedimenti diversissimi fra loro come la cancellazione dell’Imu e l’«operazione Bankitalia», lascia capire che con una mano si dà e con l’altra si prende. In più c’è l’altro obiettivo, ieri esplicitato anche dal ministro per i rapporti con il parlamento, il dem Dario Franceschini, di comunicare all’opinione pubblica che per colpa dei contestatori le famiglie italiane rischiano di ritrovarsi l’Imu fra capo e collo. Effetto diretto di quella commistione che, in cambio della rivalutazione, ricapitalizzazione e vendita di quote Bankitalia, impone alle banche (non solo a quelle azioniste di via Nazionale) una tassazione per coprire parte del buco creato dalla cancellazione dell’Imu. Eppure anche Adusbef e Federconsumatori guardano al decreto con parole chiare: «Ci riserviamo di impugnare un provvedimento iniquo, che impoverisce la collettività per avvantaggiare le caste dei banchieri e della grande finanza internazionale».

Perfino i difensori del provvedimento devono ammettere: la rivalutazione delle quote di via Nazionale e la sua conseguente ricapitalizzazione porteranno come prima conseguenza l’aumento della patrimonializzazione degli istituti di credito azionisti di Bankitalia, in vista degli stress test della Bce e dell’Eba. Azionisti che rispondono al nome soprattutto di Intesa San Paolo (30,3%) e Unicredit (22,1%), con quote più piccole per Generali (6,3%), Carige (4%), Bnl (2,8%) e Mps (2,5%).

Il meccanismo è quello della rivalutazione delle quote di Bankitalia dai certo arcaici 156mila euro di oggi ai comunque generosissimi 7,5 miliardi di euro. Con il concomitante, obbligatorio passaggio di una enorme ricapitalizzazione, fatta a carico delle riserve dell’istituto di via Nazionale. Riserve pubbliche, composte da 2.400 tonnellate d’oro – pari a circa 110 miliardi di euro – e dai guadagni che derivano dalla gestione della moneta circolante girata a Bankitalia dalla Bce.

Secondo i contestatori, mai smentiti, il risultato del meccanismo rivalutazione-ricapitalizzazione di Bankitalia offrirà una rivalutazione contabile ai principali azionisti Intesa e Unicredit per somme enormi, comprese fra i 2,7 e i 4 miliardi, e a scalare agli altri azionisti. In parallelo lo Stato incasserà un gettito fiscale superiore a a 1,1 miliardi. Infine l’operazione dovrebbe essere retroattiva, per permettere alle banche azioniste di mettere in bilancio il guadagno sulla rivalutazione fin dal 2013 e non da quest’anno.

Ma proprio a causa di quest’emendamento – gli stress test bancari saranno condotti sui conti al 31 dicembre 2013 – il governo e la sua maggioranza rischiano di veder crollare tutto un castello che in seguito dovrebbe prevedere anche la vendita delle quote di Bankitalia eccedenti il 3%. Con nuove, laute occasioni di guadagno per le banche private. Grazie alle ricchezze pubbliche.