A decidere di farlo conoscere in Italia è stato esattamente venti anni fa il piccolo e prestigioso editore il Saggiatore che mi aveva contattato per chiedermi – e ottenere – la traduzione del Kaddish per il bambino non nato. Ma sono dovuti trascorrere ben dieci anni perché un altro editore, Feltrinelli, desse alle stampe questo breve e immenso scritto. Nel frattempo esce Essere senza destino (Feltrinelli, 1999, traduzione dal tedesco di B. Griffini) e da lì la via al Nobel, al momento l’unico della letteratura ungherese, nel 2002, è spianata.

Nato a Budapest nel novembre del ‘29, Kertész, a causa delle sue origine ebraiche, viene portato prima ad Auschwitz, poi a Buchenwald. Tornerà in Ungheria nel ’45. Dopo aver conseguito la maturità, lavora per alcuni giornali, ma ben presto, nel ’53 intraprende la carriera di scrittore e traduttore. Traduce, infatti, Canetti, Freud, Hofmannsthal, Nietzsche, Joseph Roth, Schnitzler, Wittgenstein. Si cimenta anche nella stesura di opere teatrali, ma nel ’60 comincia a lavorare a Essere senza destino, il romanzo che lo ha imposto all’attenzione del pubblico e della critica nazionale e internazionale. In verità in Ungheria questo suo primo romanzo è stato rifiutato e ha trovato un editore solo nel 1975.

Kertész vi racconta la storia di un ragazzo sopravvissuto ad Auschwitz che, una volta tornato a casa, non ritrovandosi più, viene assalito da un atroce senso di nostalgia per l’ambiente orribile eppure protettivo del lager.
Nei suoi scritti si ferma principalmente sulla storia dell’orrore nel ‘900, sull’odio razziale, sullo sterminio, sulla disumanità che alloggia nell’animo umano.

«I decenni mi hanno insegnato che l’unica via verso la liberazione passa attraverso la memoria. Ma anche le modalità del ricordo variano. L’artista spera che l’esattezza della rappresentazione, che riporta anche lui nei sentieri mortali, lo condurrà alla forma più nobile di liberazione, alla catarsi, alla quale forse anche il suo lettore prenderà parte, in seguito. Potrei contare sulle dita delle mani gli scrittori che hanno creato una grande letteratura sull’esperienza dell’Olocausto… è molto più frequente che lo rubino ai suoi depositari e ne facciano una merce scadente. Oppure istituzionalizzano l’Olocausto, ne stabiliscono il rituale politico-morale, ne elaborano il linguaggio – spesso falso – impongono alla divulgazione persino le parole che, quasi automaticamente, provocano negli ascoltatori-lettori il riflesso dell’Olocausto: insomma, lo straniano in tutti i modi possibili e impossibili. Istruiscono i sopravvissuti: come devono riflettere su quello che hanno vissuto, del tutto indipendentemente da come questa mentalità si accorda con le esperienze reali; il testimone autentico un po’ per volta sarà soltanto d’impaccio, bisognerà rimuoverlo come una sorta di ostacolo».

Sulle motivazioni dell’assegnazione del premio Nobel dice: «Per me è interessante che mi abbiano conferito il Nobel per i miei lavori sull’Olocausto e contro le dittature. Potrebbe anche rappresentare una sorta di benevola intenzione recondita per i paesi dell’Europa orientale».

Tuttavia il fatto che si associasse il suo nome principalmente a Essere senza destino – che con Fiasco (Feltrinelli, 2003, trad. di A. Sciacovelli) e Kaddish per il bambino non nato (Feltrinelli, 2006, traduzione di M. Sciglitano) dovrebbe costituire una sorta di trilogia – lo portava a riflessioni amareggiate: «A Varsavia e altrove mi lasciano intendere a ogni piè sospinto di essere, in effetti, lo scrittore di Essere senza destino, considerando, come dire, inutili gli altri miei lavori. Devo accettare questo giudizio? Non lo accetto. Essere senza destino è certamente un lavoro originale, unico, ma va a integrare in modo completo il mondo, il mio mondo, insieme agli altri«».

A due anni dalla pubblicazione del suo libro più famoso, nel 1977, Kertész pubblica Storia poliziesca (Feltrinelli, 2007, trad. di M. Sciglitano), nella cui prefazione spiega: «Si trattava di una mia vecchissima idea, con cui mi ero trastullato per un pezzo e poi, mentre scrivevo Essere senza destino, l’avevo dimenticata. A primo acchito non sembrava tanto roba da casa editrice. Come si poteva far pubblicare una storia che parla della tecnica per conquistare il potere illegittimamente proprio sotto il naso di censori vigili in una dittatura che aveva conquistato il potere illegittimamente? Se, invece, avessi trovato un espediente “ingegnoso”, avrei messo in pericolo l’efficacia della storia, il suo radicalismo. Alla fine decisi che non avrei omesso le azioni “rivoltanti”, avrei, invece, spostato l’ambientazione in un immaginario paese sud-americano. Questo lavoro rappresentò per me una sfida insolita […] non avevo mai scritto un romanzo che non fosse nato da una diretta e incalzante necessità esistenziale».

E quello della dittatura vs democrazia è un altro dei temi che Kertész affronta nei suoi scritti, infatti. Riportiamo uno stralcio dell’intervista rilasciata dallo scrittore al Manifesto nel 2010: «[…] La democrazia, in fin dei conti, non è una forma di stato che vada bene per tutti. Funziona laddove si è formata». Difficile e, per certi versi, insanabile il rapporto di Imre Kertész con il suo paese di origine: «[…] Posso riassumere in tre domande il mio rapporto con l’Ungheria: Perché dovrei amare i (post) comunisti? Perché dovrei amare i (post) fascisti? Perché dovrei amare l’Ungheria? […] Oggi ormai – oggi ormai? Ormai da quanto tempo? – è evidente che non ci sia spazio nella letteratura nella cui lingua scrivo. Non capisco nemmeno il paese di cui sono cittadino. Che c’entro con l’Ungheria dei delatori? Che c’entro io con la morale da spie che questo paese ha formato? Non è, forse, questa la mia colpa più grande? Di non essermi assunto il mio concorso di colpa, la complicità, lo sporco “comune”? Non è questo alla base del mio isolamento di qui? L’ingenuo Kertész… Ogni volta che ho parlato e parlo con gli intellettuali è una sgradevole puntura di pulce sulla schiena, sulle gambe, una voglia di grattarsi, quella mia eterna ridicolaggine, quell’infantilismo di fronte agli adulti seri… Con me non si può parlare di cose serie; perché qui cosa c’è di serio? La corruzione, il tradimento intellettuale, la delazione che talvolta è “naturale”, talvolta riprovevole, sempre secondo il livello del momento, livello che non mi è mai chiaro… No, qui non mi perdoneranno mai il pensare indipendente e un modo di vivere che se ne assume tutte le inesorabili conseguenze. A tale riguardo il mio ebraismo è un annesso puramente simbolico».

Sempre negli scritti L’ultima locanda. Diari 2001-2009 (dei quali sto curando la traduzione per Bompiani e che, quindi, dovrebbero uscire nel 2016) lo scrittore va a fondo: «Sento di appartenere interamente al mondo occidentale, in modo sempre più palese. Proprio non riesco a vedere il mondo con occhi ungheresi, est-europei. Quando si è parlato […] del perché la letteratura ungherese andasse a fecondare lo spirito tedesco, mi sono avveduto tutto a un tratto che si trattava della cultura borghese ungherese esiliata o distrutta, di questa fragile entità che la nazione rigetta come un corpo estraneo. Che differenza tra il mio ruolo straziante, falso, recitato in Ungheria e – starei per dire – la missione in cui sono impegnato qui, a Berlino! Come se qui la mia vita fosse reale e quello che creo, la mia opera: realtà. Questo non l’ho mai sentito in Ungheria».
E naturalmente il disagio di questo rapporto controverso, doloroso con il paese ricorre spesso nei suoi diari: «[…] Secondo le recensioni, le monografie e quant’altro in Ungheria la mia carriera di scrittore è una catastrofe, un declino permanenti a partire da Essere senza destino, una lotta disperata e penosa contro la mia mancanza di talento. Deplorano piuttosto i miei saggi […]. Così, dunque, non c’è altro da fare che seguire la sorte dei miei libri all’estero. Ed è interessante che possa accettare questa situazione senza lingua o tra le lingue come accetto anche la mia esistenza berlinese. Anche io morirò poi, anche i miei lavori scompariranno poi; vale la pena crearli, ma preoccuparsi per loro è superfluo. Vivono la loro vita particolare come e fino a quando possono».

Nel 2012 Imre Kertész annuncia la sua decisione di lasciare la sua eredità letteraria alla Akademie der Künste di Berlino, città alla quale era molto legato e nella quale si era trasferito: si tratta di 35mila pagine di testi, manoscritti, lettere, diari scritti a mano, nonché bozze dei romanzi con correzioni autografe, quaderni di appunti.

In essi considerazioni e analisi sull’attualità quali, ad esempio Islam, flussi migratori, Israele e Palestina, invasione della cultura americana in Europa, declino di quest’ultima, conflitti religiosi: «[…] Non narcotizziamoci: le formule ufficiali, istituzionali e ecclesiastiche della fede si sono svuotate, questo riguarda ogni fede, ogni chiesa, ogni comunità religiosa […]».

Dell’uomo Kertész ricorderei ancora la pazienza, l’attenzione e la disponibilità nei confronti dei suoi traduttori, lo sguardo bonario con il quale accompagnava le sue risposte, il suo atteggiamento verso il mondo che non dava mai niente per scontato.