Cultura

Impreviste ferocie degli animali letterari

Illustrazione dei gemelli Detmold per «Il libro della giungla» di Rudyard Kipling, 1903Illustrazione dei gemelli Detmold per «Il libro della giungla» di Rudyard Kipling, 1903

Scaffale Un itinerario di letture stranianti e oniriche: si va dal «Bestiario del sogno» di Franco Santucci a «La pantera» di Davide Brullo fino alle «Favole nuove» di Livio Santoro

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 21 maggio 2024

Che sia straniamento si dice in fretta: un modo di dire le cose che produce uno smarrimento più o meno prolungato nel comprendere, un disorientamento intellettuale, «uno choc psichico» di fronte all’inaspettato, all’ignoto. Non è un fatto marginale nel rapporto tra lingua e letteratura, anzi n’è il fulcro pragmatico. L’eccesso di straniamento a volte viene detto audacia ma è bene sapere che l’assenza di straniamento si dice noia. Totalmente astruso e tediosamente concreto sono quindi i due estremi della possibilità di costruzione ambientale entro cui fare esperienza (lettura). Ambiente rischiosamente estraneo o fastidiosamente prevedibile.

IL PRETESTO PER PARLARE in questi termini dello spazio letterario è offerto dal caso, come spesso accade nell’imprevisto, di tre agili narrazioni uscite nei primi mesi del 2024, che sfidano, in maniera audace, i limiti del consueto, accomunati forse solo dall’idea d’assegnare al racconto il compito di aprire nuovi percorsi ed esplorare in tal modo territori sconosciuti. Fuor di figura, il compito cioè di produrre un’esperienza narrativa che produce ambienti inusuali, stranianti. Per il resto, le modalità rimangono assai differenti, se non per un altro, non innocuo particolare: il mondo animale non umano vi ha un ruolo importante, essenziale, fondativo.

IL PRIMO è di Franco Santucci, Bestiario del sogno (Wojtek, pp. 103, euro 16), sedici brevi tentativi di replicare l’onirico nella scrittura: non semplicemente riferire il sogno, ma utilizzare il racconto come strumento onirico. Non v’è infatti alcuna pietà per chi legge, nessuna indulgenza, nessun tentativo di legame empatico. Il racconto non è freddo, tutt’altro, anzi ha pathos, a tratti quasi scotta, ma non fa nulla per farsi comprendere. E va capito, tuttavia, che questa stranezza, questa irrazionalità vuole svolgere le funzioni del sogno con la sua principale modalità: resettare la memoria in modo tanto occulto da essere scordato o rimanere indicibile: burn after reading. In questo caso, l’animale è sempre il tramite figurato dell’estraneità: è la concretizzazione di un corpo/immagine che agisce secondo una logica estranea all’umano, incomprensibile e imprevedibile, capace proprio per questo di sorprenderci, spaventarci, aprirci gli occhi, di metterci di fronte a qualcosa di autentico senza che ce ne accorgiamo. Forza dell’incongruo onirico che fa apparire e scomparire ad un tempo chiarezza e visione.

IL SECONDO è La pantera, una storia di Davide Brullo (Industria&Letteratura, pp. 172, euro 12) dedicata alle vicende complicate e oscure che caratterizzarono la scia biografica della famiglia Detmold, i gemelli Charles Maurice e Edward Julius e la sorella Sarah: coinvolti tra loro in relazioni estreme e pericolose, Charles prima e molti anni dopo Edward moriranno suicidi. La vera protagonista del racconto, che si costruisce in quadri temporalmente incoerenti, per lo meno non in successione cronologica (fatto che aumenta lo straniamento nella lettura), è la pantera. Ch’è quella che i fratelli disegnarono per illustrare, nel 1903, Il libro della giungla di Rudyard Kipling, la tenebrosa e inquietante Bagheera; ora però libera di spostarsi occultamente di persona in persona, di corpo in corpo, libera di apparire e scomparire repentina, come un demone che possiede, costringe, fa agire e poi abbandona il proprio strumento, il proprio medium. La pantera può essere motrice di ispirazione artistica, grazia, intuizione e comprensione ma anche ferocia, crudeltà, fame di sesso o di morte. L’ignoto che suscita può diventare distruttivo o creativo, liberatore o assassino. La pantera non si preoccupa di dare senso all’azione, semplicemente si presenta.

IL TERZO LIBRO è Le favole nuove di Livio Santoro (Edicola, pp. 93, euro 12), ventotto quasi apologhi, microstorie che reclamano di essere riconosciute come un nuovo racconto della nascita. Prevalentemente in uno scenario fantastico, toccato anzi da una tentazione fantasy, l’azione di straniamento viene condotta anche tramite le parole, con uso di varietà sinonimica, pure di parole rare o semplicemente desuete, da esigere spesso un vocabolario. Nell’abbraccio affettuoso con una creatura indefinita, «la bestia», pelosa, con vari arti animali, il volto semi-umano e una casupola per abitazione, nasce il bisogno di riformulare l’immaginario narrativo, tentativo di neo-fondazione della memoria.

Il tratto più forte, benché non unico, è certo l’audacia di abolire, nella genesi delle cose, il limite tra organico e inorganico: corpi che diventano montagne, fuoco che solidifica in carni; anche la soglia dello specismo è varcato, tramite il trucco della metamorfosi o della relazione simbiotica tra esseri; non mancano fantasie su riti e costumi sociali che governano questo mondi plasmatici e magmatici.

Forse non val neppure la pena di chiedersi cosa spinga a tali audacie, di per sé accoglienti e affascinanti per quanto o proprio perché tanto stranianti. E pure è difficile, al di là di una certa ambizione a sottrarsi al dicibile quotidiano, individuare gli effetti di queste pratiche narrative. Ma qualsiasi effetto sortiranno, lo faranno di certo inconsciamente, invisibilmente e senza ragioni.

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