«Quando le aziende saranno obbligate al rispetto dei diritti umani, dovrebbe diventare più difficile delocalizzare». Marta Bordignon, presidente di Human Rights International Corner (HRIC), è esperta di diritti umani e impresa, un settore nuovo che si è sviluppato negli ultimi 10 anni per sensibilizzare anche le imprese – che non sono attori del diritto internazionale – al rispetto dei diritti umani.

Professoressa Bordignon, a che punto sono i negoziati iniziati nel 2014 sul trattato Onu per vincolare le imprese multinazionali al rispetto dei diritti umani?

Dopo una fase iniziale un po’ difficoltosa per lo scarso consenso da parte degli stati che sono sedi di multinazionali – mi riferisco in particolare a Stati Uniti e Canada – dal 2020 le parti hanno cominciato a negoziare su una bozza che ha già l’aspetto di un trattato: questa contiene una lista abbastanza ampia dei diritti umani riconosciuti e ricalca i Principi guida Onu su imprese e diritti umani del 2011, un documento che venne votato all’unanimità e che rappresenta tutt’ora il punto di riferimento condiviso su questa materia. La negoziazione è ancora complessa, la maggior parte degli stati contrari lo sono tuttora. Però, siamo entrati in una fase di partecipazione molto attiva, che vede il coinvolgimento di parti diverse della società civile, dai sindacati alle imprese, dalle associazioni di categoria alle Ong, che non possono intervenire sul testo, ma sono comunque ascoltati.

Alcune Ong europee hanno contestato la posizione poco incisiva dell’Unione Europea durante l’ultima tornata di negoziati. È possibile per l’ Ue fare norme per conto suo?

In effetti, le grandi Ong durante i negoziati twittavano #WhereistheEU? (dov’è l’UE?). La sensazione è che i negoziatori europei non avessero un mandato dall’Ue. In realtà a Bruxelles, in particolare con la Commissione Von der Leyen, si sta lavorando molto sul tema. Il commissario alla Giustizia Didier Reynders ha annunciato che entro giugno 2021 verrà messa a punto la proposta per la direttiva sulla Due Diligence («dovuta diligenza») delle imprese in materia di diritti umani e ambiente, norma che imporrà processi serrati di identificazione, prevenzione, mitigazione dei rischi e responsabilità in caso di violazioni dei diritti, non solo per le multinazionali ma anche per le Pmi. Anche il Parlamento Europeo si è già espresso a favore. Non c’è dubbio che l’Ue possa arrivare ad avere una sua normativa in meno di un paio d’anni, mentre i tempi di un trattato multilaterale sono molto più lunghi. Lo stesso padre dei principi guida, John G. Ruggie, che li elaborò quando era Rappresentante Speciale del Segretario generale dell’Onu, non è favorevole al trattato multilaterale, lo considera una forzatura.

Però, secondo uno studio della Commissione sui requisiti della Due Diligence, le misure finora adottate dalle imprese – basate sulla volontarietà – non funzionano.

I Principi Guida Onu su imprese e diritti umani del 2011 sono il punto di forza di questa materia e lo strumento più avanzato che abbiamo finora a livello internazionale. Io credo che abbiano funzionato, se non altro perché sono serviti a spostare il focus di molti attori su questo tema e hanno contribuito a fare crescere l’interesse e anche la ricerca. Al momento, sono 25 gli stati nel mondo che hanno adottato un Piano d’azione nazionale, e comincia ad esserci giurisprudenza. Una sentenza come quella che ha imposto alla compagnia petrolifera Shell di risarcire i danni arrecati da una sua sussidiaria a persone che vivono nel Delta del Niger non sarebbe stato possibile senza questo strumento.

L’Italia è sensibile a questi temi?

L’Italia si è data un Piano d’azione su impresa e diritti umani per il periodo 2016-2021: si tratta di uno strumento politico e programmatico non vincolante che ha aperto un dialogo tra istituzioni, imprese, società civile e avviato un’opera di sensibilizzazione, conoscenza, formazione, per esempio per avvocati e giudici. Inoltre, come tutti i membri dell’Ocse, l’Italia si è dotata del Punto di contatto nazionale, che è un organismo in capo al ministero dello Sviluppo economico, che fa da camera di mediazione/arbitraggio tra vittime e imprese che hanno sede in Italia. Negli ultimi tre anni c’è stato un incremento di casi: il più noto è quello sollevato dalla comunità di Aggah, anche questa nel Delta del Niger, che ha presentato un’istanza contro l’Eni per aver causato inondazioni con i suoi impianti. Il 9 luglio del 2019 le parti hanno trovato un accordo in base al quale l’Eni si è impegnata costruire nuovi canali di scolo e di drenaggio per mitigare il rischio inondazioni.

La responsabilità delle imprese nel rispetto dei diritti umani può aiutare la salvaguardia dell’ambiente? In fondo, i principi basilari del diritto dell’ambiente, prevenzione e precauzione, sono molto simili ai principi che sottendono alla Due Diligence delle imprese.

Assolutamente, anche se tutta la parte del diritto ambientale è ancora molto discussa. Non esiste un diritto umano all’ambiente sano tout court: per affermarlo, i giuristi devono mettere insieme una serie di diritti umani già riconosciuti come tali: il diritto all’acqua, l’accesso al cibo, ad un ambiente salubre, che è una cosa diversa. È un diritto ancora controverso, ma assolutamente legato a diritti umani e impresa. Del resto, la proposta del Commissario europeo Reynders, fa sempre riferimento a diritti umani e ambiente. È una proposta che parte dal Green Deal e Reynders recentemente ne ha parlato anche in riferimento ai cambiamenti climatici.

Le aziende come vedono questa normativa?

Inizia ad esserci un certo consenso in Europa. In Lussemburgo c’è un gruppo di imprese che ha detto di voler sostenere la normativa europea, lo stesso in Olanda. Certo, nel Nord Europa esiste una sensibilità diversa. In Italia, anche se non mi risultano imprese che si siano espresse a favore, noto un crescente interesse. Le grandi imprese si informano, chiedono formazione, cominciano a creare dipartimenti sui diritti umani. Si potrebbe pensare che sono quelle con la coscienza più sporca… In realtà, poiché le aziende sanno che c’è un consenso politico crescente su questo tema, sono consapevoli che prima o poi saranno obbligate a fare la Due Diligence anche sui diritti umani e l’ambiente, quindi si devono attrezzare. Del resto sanno anche che ne avranno un ritorno: il rischio reputazionale si traduce in rischio economico. Se violano i diritti umani fondamentali si espongono a boicottaggi, campagne social, scioperi, ritardi negli investimenti, e questi hanno un costo.