In dodici anni nella manifattura italiana hanno perso il lavoro un milione e 160 mila persone. Tra il 2001 e il 2013, sostiene il centro studi Confindustria nel rapporto annuale «Scenari globali» hanno chiuso 120 mila imprese. La massiccia erosione della base produttiva, scrivono i ricercatori di Viale dell’Astronomia, è dunque precedente di circa otto anni dall’inizio ufficiale della crisi globale e si è intesificata nei suoi primi anni. Tra il 2001 e il 2011, infatti, hanno perso il lavoro un milione di addetti, mentre 100 mila fabbriche hanno chiuso i battenti. Tra il 2011 e il 2013 la crisi è precipitata facendo perdere il lavoro ad altre 160 mila persone. Ventimila sono state le imprese perdute.

Ciò ha comportato un calo produttivo complessivo del 5% registrato tra il 2007 e il 2013 provocando un contraccolpo nel posizionamento del sistema industriale italiano nelle classifiche del capitalismo mondiale. In questo «quadro impietoso» l’Italia sarebbe scivolata all’ottavo posto nella graduatoria dei maggiori paesi manifatturiere, superata dall’India al sesto posto e dal Brasile al settimo posto. Nel confronto tra il 2013 e il 2007 e il 2000 l’Italia è stato l’unico paese tra i primi dieci con il segno meno in entrambi i periodi. Il tasso percentuale di crescita media annua della manifattura è pari al 5%. Questo calo non viene spiegato esclusivamente con l’avanzata dei paesi «emergenti» come Cina, India o Brasile, ma anche per «demeriti domestici». La contrazione del 5%, infatti, non trova riscontro negli altri paesi manifatturieri. La produzione manifatturiera mondiale è infatti cresciuta del 36% nel 2000-2013, mentre l’Italia, nello stesso periodo,ha registrato un crollo del 25%, con cadute in tutti i comparti ad eccezione di quello alimentare. Tra le cause scatenanti di questa anomalia c’è la contrazione di investimenti e consumi interni l’asfissia del credito delle banche verso le imprese (credit crunch), l’aumento del costo del lavoro slegato dalla produttività, la redditività che ha toccato il fondo. Questi fattori si sono intrecciati bloccando tanto l’attività industriale quanto quella bancaria.

Ciò non toglie che, rispetto a paesi della stessa dimensione demografica, l’Italia abbia ottenuto il 23° posto che nella gara della competitività globale viene definito come un «ottimo posizionamento». Su questo scenario pesano per Confindustria «i condizionamenti europei» che «certo non aiutano». Si sono abbattuti su tutti i paesi europei, che infatti arretrano, ad eccezione di Germania e Polonia sulla cui crescita però i ricercatori nutrono più di un dubbio: «quanto a lungo durerà?» si chiedono. C’è poi il capitolo delle «politiche fiscali restrittive» e «il paradosso di un euro che si apprezza, specialmente nei confronti delle valute di molte economie emergenti, e frena così il driver delle esportazioni». Questa situazione sta facendo «arrancare» l’Europa colpita dalla combinazione di politiche recessive e dal rigore di bilancio «che rallentano le esportazioni».

È una richiesta ad allentare la morsa del patto di stabilità in nome di una «capacità di competere» che è rimasta forte, anche perché gli economisti di Confindustria registrano segnali di cambiamento «nelle strategie delle imprese» che intendono reagire al credit crunch senza rinunciare agli investimenti. Forte è la critica alla mancanza di una politica industriale che è tornata ad essere considerata un fattore importante al pari delle politiche di bilancio e di quelle monetarie. Non è così in Italia che ha abbandonato un programma di rilancio industriale denominato «Industria 2015» inaugurato nel 2006 e bloccato nel 2008.

«Un bollettino di guerra – ha commentato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi – ma le imprese non sono immobili. Rispondendo indirettamente al governatore di Bankitalia Ignazio Visco Squinzi ritiene che investire «non è facile farlo quando la redditività è al lumicino e il costo del lavoro aumenta in modo slegato dall’andamento della produttività». Gli industriali proporranno nei prossimo giorni un’agenda sul credito