Stefano Bonaga e Giorgio Ardeni hanno aperto un importante dibattito su come superare l’odierna impotenza politica, che ha portato ad intervenire diverse personalità del mondo politico e intellettuale, ultimi Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani: recuperando il termine “isocrazia” si auspica un riscatto della potenza “equamente distribuita” del sociale, capace di sanare l’inadeguatezza della rappresentanza politica e riattivare la cittadinanza, fonte reale di ogni effettualità. Franco Berardi “Bifo” è stato uno dei primi a rispondere a questa sollecitazione, radicalizzando i termini della questione: l’attuale impotenza non deriverebbe da “ragioni politiche”, quanto da condizioni reali e, di fatto, immutabili: sarebbe la stessa “complessità (letteralmente super-umana) “del mondo tecno-naturale ad aver infranto l’illusione moderna di porre “l’uomo a misura di tutte le cose”. Saremmo dunque testimoni di un’apocalisse in senso proprio. La modernità si starebbe rivelando per quel che è sempre stata: identità di progresso e violenza.

C’è qualcosa di vero in queste analisi e ciò nonostante vorrei porre alcune domande. Anzitutto, siamo davvero sicuri che la “politica” sia impotente? L’impressione, infatti, è che non sia affatto la politica in sé, intesa come capacità di indirizzo e di governo, ad essere impotente: le misure straordinarie prese nell’ultimo anno in termini di condizionamento sociale, di intervento diretto in economia, di riqualificazione di alcune filiere produttive, dimostrano il contrario. L’impotenza riguarda piuttosto i governati, o meglio le maggioranze sociali. Sono queste ultime ad essere tragicamente impotenti.

Il caos e l’impotenza del politico non dipendono da condizioni immutabili, ma sono piuttosto il prerequisito per l’esercizio di questo potere. Solo nella crisi permanente, infatti, è possibile ricorrere a quella decisione sullo stato d’eccezione su cui si fonda l’odierna tecnica di governo. Vi è insomma molta ragione in questa follia, molto ordine in questo caos.  La questione che mi pare si rimuova è allora che l’impotenza non riguarda il politico in quanto tale, quanto le maggioranze sociali che, pur essendo fonte reale di ogni ricchezza e di ogni legittimità, vengono quotidianamente sfruttate e umiliate.

Di qui una seconda domanda: siamo sicuri che la distruzione della natura e della società a cui assistiamo siano il risultato di quel progetto moderno, per il quale non più Dio e nemmeno la Natura, ma l’umano si pone come fonte di senso e di ordine? L’orrore potrebbe esser conseguenza non della realizzazione di questo progetto, quanto della sua incompiutezza. Il nostro, infatti, è un sistema sociale nel quale l’essere umano e i suoi bisogni, più che stare al centro, vengono ridotti a strumento. Davvero modernità e capitalismo coincidono? Il problema, più che nella tracotanza dei moderni a far dell’uomo il centro del mondo, andrebbe ricercato in questo modo di produzione per il quale, più che i bisogni e i desideri degli uomini, delle donne e del pianeta che li ospita, conta solo l’accumulazione di profitti.

Per non rassegnarci dovremmo allora interrogare questo spietato disordine nella sua altrettanto spietata sistematicità: se lo facessimo scopriremmo che il potere non è affatto scomparso, che esistono istituzioni, interessi e classi che esercitano la loro “potenza” in maniera estremamente precisa ed efficace; che siamo noi donne e uomini, noi popoli e comunità concrete, ad essere spossessati e impotenti, ridotti a strumenti sacrificabili. Da organizzare non è allora la “cittadinanza”, né la “società civile” e nemmeno l’umano (o il post-umano), ma sono le maggioranze sociali, nella loro determinatezza e nella loro incompatibilità con l’ordine dato.

Solo partendo da qui potremo forse aggredire quei luoghi nei quali la potenza politica ed economica si struttura e si distribuisce, per determinarsi in atti, decisioni, istituzioni, proprietà, e diventando così potere. Per farlo servono progetti capaci di offrire soluzioni reali a bisogni concreti, organizzazione e strumenti d’azione. Soprattutto serve un’idea di società. Tutte cose che al momento non abbiamo. L’attivazione della cittadinanza è fondamentale, così come lo è la lucida disperazione, ma per smettere di subire bisogna superare il civismo dei piccoli gesti e dei simposi, trasformando la disperazione in radicalità: quella radicalità necessaria a comprendere e ad aggredire questa realtà nella sua orrenda, ma coerente sistematicità.