Raggiungiamo le stanze della mostra De Kooning e l’Italia attraversando un lungo corridoio al piano terra delle Gallerie dell’Accademia, tra maestranze, addetti ai lavori, mentre l’occhio supera le vetrate sulla destra e si posa sui quadri della collezione permanente.

ALCUNE FIGURE DIPINTE compiono gesti. Forse ci osservano sospettose. Quando varchiamo la soglia, ci troviamo di fronte a una magnifica scultura in bronzo (Hostess, 1973): una figura umana colta in stato di liquefazione, di cui riconosciamo appena la struttura. O forse è vero il contrario: la figura si sta formando? Nelle opere di Willem de Kooning è percepibile questa oscillazione. Non è colui che si muove in equilibrio tra distruzione e creazione?
Entriamo nella prima sala: dipinti, una serie di sculture, opere dal segno marcato, nero. Di fronte a noi riconosciamo alcune Woman. Sulla sinistra attrae lo sguardo un dipinto della fine degli anni ’50, Bolton Landing (1957), con i suoi colori dinamici, zigzaganti. Strati di blu, giallo, nero, rosso, bianco che si intersecano, si sovrappongono alterandosi, cancellandosi.
Al suo fianco, Detour (1958), con i suoi gialli accesi, i verdi sulla parte superiore a incontrare il blu, il bianco che si impasta, cancella, sfarina in una specie di crema, creando una massa contorta al centro del quadro. La materia cromatica produce rilievi, immersioni. Insieme al successivo, Brown Derby Road (1958), i tre dipinti sono stati esposti da Sidney Janis, etichettati come «Vedute astratte di viali». Quella massa centrale nel secondo dipinto deve essere per forza uno svincolo. Con la coda dell’occhio notiamo un uomo avvicinarsi. È Richard Shiff, uno dei maggiori esperti di de Kooning (suo il magnifico Between Sense and de Kooning, Reaktion Books, 2011).

GARY GARRELS, che insieme a Mario Codognato ha curato questa mostra, ricorda nel catalogo (Willem de Kooning e l’Italia, Marsilio) l’importanza del suo primo soggiorno italiano. Nel 1959, Thomas Hess pubblica la sua prima monografia, e lui si permette una breve vacanza. Giunge a Venezia e passa qualche giorno a Roma. I canali con i riverberi luminosi e la laguna gli confermano la fascinazione per l’acqua.

A ROMA SENTE LA FORZA della città più antica del mondo, insieme alla potenza della luce italiana. Tanto che, appena rientrato a New York, decide immediatamente di farvi ritorno: da fine settembre 1959 ai primi di gennaio 1960. Le opere d’arte antiche, gli incontri con gli artisti italiani, le oscillazioni atmosferiche, produrranno un sottile cambiamento nel suo modo di lavorare.
È proprio questo slittamento che la mostra mette in evidenza. Ecco i collage, l’uso massiccio dei neri (Codognato nota l’influsso di Afro e Dorazio). Per Garrels, «i dipinti del 1960, dopo il suo ritorno a New York, sono più fluidi, con una composizione più organica e colori che richiamano la natura». Nella sala, tre di questi dipinti (due dei quali portano un titolo italiano: Villa Borghese, A Tree in Naples), lo dimostrano chiaramente. Esposti insieme per la prima volta, posti di fronte alle tre «Vedute astratte di viali», testimoniano questo sottile rinnovamento.

MA TUTTE LE OPERE nelle sale ce ne danno conferma. Il tratto si fa più liquido, simile a un moto ondoso, tra sovrapposizioni cromatiche, sfocature, cancellazioni, incidenti, pentimenti, fino ai lavori complessi e dalla linea più esile degli anni ’80. Lo avvalorano anche le Woman. Magari Woman on a Sign II (1967), dalle forme gargantuesche, i colori accesi, squillanti. Al centro della prima sala, in posizione dialettica, svetta la scultura in bronzo Seated Woman on a Bench (1972) la cui figura si sovrappone al dipinto della Donna, realizzato cinque anni prima.
È a Roma, in una fonderia di Trastevere, che de Kooning scopre la scultura. I lavori qui esposti sono disparati. L’argilla è lavorata con perizia e originalità. Ne escono a volte facce, larve, o specie di entità aliene: organismi biomorfi. E che colpo al cuore vedere riuniti, all’improvviso, nel passaggio che separa due stanze, tre superbe sculture: Giacometti, Medardo Rosso e Rodin. Discendenze di famiglia.

Restano i disegni. Inchiostro su carta per quelli più fluidi, realizzati nel 1969 a Spoleto e ispirati a Brueghel. Quelli in grafite hanno la linea spezzata, incisiva. Vale la pena ricordare come de Kooning lavorasse alle figure con entrambe le mani, con due o più matite contemporaneamente, con gli occhi chiusi, magari guardando la televisione. Dipinti, sculture, disegni. I gesti sembrano riverberare. Le opere sono lì, davanti a noi. Paesaggi e pura gioia del colore. Figure umane in metamorfosi. Si dissolvono? Stanno germogliando? Ma quand’è che un’opera è finita? «Mi fermo e basta», diceva. Conoscete maggior sprezzatura?