C’erano anni in cui si partiva in Cinquecento, destinazione ignota. O meglio, si partiva per disegnare un percorso di esplorazioni nella campagna modenese, affacciandosi su paesaggi abbandonati, case rurali in dismissione, luoghi densi di una storia dimenticata che veniva impressa su negativi e interpretata in piccoli happening. Più che una serie di fotografie scattate in amicizia da giovani artisti, da quelle peregrinazioni nacquero alcune performance delle immagini, che andarono a comporre un album generazionale attraverso geografie sentimentali, vissute con soste in posti evocativi, trasudanti ricordi, radici, oggetti, reperti. Giocose pause.
Erano questi i «viaggi randagi» che Franco Guerzoni, fotografo e pittore, faceva con l’amico Luigi Ghirri, fotografo purissimo senza altre accezioni. I due si scambiavano ritratti, sensazioni, quotidianità, momenti scherzosi. C’era, intatta, la voglia famelica di testimoniare un’epoca di grandi rivolgimenti e promesse. Così, ci si imbarcava in giornate caratterizzate da quelle che Guerzoni chiama adesso le «derive». Derive ludiche, mappature esistenziali dove l’importante non era riempire un vuoto con il proprio passaggio, ma casomai lasciare una traccia, segnare il territorio con una presenza frammentaria, interrotta e ripresa nel corso di molti, ossessivi ritorni.
Ora quei vagabondaggi – i quali, più che una cronologia in sequenza di avvenimenti, documentavano un modo di essere, un dna creativo – hanno formato un bel mosaico a parete presso la Triennale di Milano e rappresentano una delle possibili letture della mostra appena inauguratasi Nessun luogo. Nessuna parte (aperta al pubblico fino all’8 novembre).
Curata da Davide Ferri, frutto della collaborazione fra Triennale, Nicoletta Rusconi Art Projects e Skira editore (che ha pubblicato anche il libro-diario, introdotto dal testo di Arturo Carlo Quintavalle, di cui l’esposizione finisce per essere l’impronta visiva, un sismografo che segna confini e sconfinamenti), la rassegna può contare, infatti, su più livelli di coinvolgimento del suo pubblico. C’è la relazione affettiva fra il protagonista – Franco Guerzoni – e l’amico Luigi Ghirri (suoi i molti scatti inediti usciti per la prima volta alla luce); c’è, prorompente, l’ansia sperimentale che si respirava in quegli anni (siamo a cavallo fra i sessanta e i settanta) e c’è, naturalmente, la struttura narrativa di Guerzoni stesso, l’alfabeto visivo che l’artista ha sviluppato nel suo post-Ghirri. Ecco allora, l’«archeologia delle rovine», il territorio fatto di muri scrostati, muffe, polveri sedimentate nel tempo, gli oggetti sbordanti dalla bidimensionalità, improvvise apparizioni all’interno degli scatti di Ghirri in cui le fotografie diventano «cose materiali», concedendosi capricciosamente alla realtà.
La cronologia delle opere insegue le date a zig zag, va avanti e indietro. A volte, è una moviola che pesca a piene mani nel passato, altre una proposta di ricongiungimento con l’oggi. Lo stesso libro, che accompagna l’itinerario della mostra come una guida da consultare in tutta libertà, «è un sorriso, non un racconto vero e proprio, una traccia memoriale e un groviglio di frammenti», assicura l’artista. Non siamo di fronte all’esigenza di definire un «sistema-mondo». La passeggiata in corso è, piuttosto, di stampo situazionista.
«Vivevamo sulla nostra pelle l’influenza delle neoavanguardie, la Land art americana, il concettualismo, il minimalismo – spiega Guerzoni – Le novità, per noi che ci muovevamo in un piccolo territorio, rimbalzavano sugli amici più grandi, Claudio Parmiggiani, Franco Vaccari, che avevano già una loro traiettoria, e noi assorbivamo, in seconda battuta, tutto questo cambiamento. Pensavamo che la poesia non ci sarebbe più stata. L’avevano spezzata per primi i Futuristi, poi il Gruppo 63 l’aveva fatta a fette. Anche il cinema era esploso: la Verifica incerta di Baruchello e Grifi è un film-simbolo di quelle rotture del linguaggio che si andavano praticando. Pure Sebastiano Vassalli, oggi straordinario autore, all’epoca tagliuzzava le parole e scriveva libri illeggibili. Il vantaggio di aver vissuto in quel tempo è stata la spinta emozionale verso il nuovo. Lo svantaggio, l’ideologia accecante. La pittura che credevamo morta, continuava invece ad esistere…». Proprio Vassalli lo seguì nelle prime prese di possesso del territorio: la serie di foto 64 lampadine (1969) scattate da Vaccari (esposte in Triennale), dove si vede un Guerzoni-ghost perdersi fra i punti luce che costellano la notte, vengono interpretate come «allucinazioni, un percorso precario in cui si riflette l’infinita assurdità delle cose e l’irreversibilità angosciosa, nell’attimo breve della luce».
«Il nostro era un artigianato visivo – continua Franco Guerzoni – oggi il digitale rende impossibile quel rapporto speciale fra artisti, anche di generazioni diverse». La comunità elettiva è sparita. All’epoca, invece, «ci fu il passaggio fra un atteggiamento del sapere della mano e l’incontro con Duchamp e Man Ray. Fu per noi vera droga, una overdose. Eravamo filtri inocenti di ciò che succedeva e forse le immagini esposte qui in Triennale, restituiscono quel clima più di altri lavori. È un mosaico emozionale, che racconta espostamenti, accensioni e spegnimenti immediati….Usavamo il bianco e nero perché il colore ricordava i servizi per i matrimoni, le foto negli album di famiglia». Nonostante ciò, Franco Guerzoni era sempre alla ricerca di colori nelle vecchie mesticherie, nei negozi che fornivano materiali per il restauro. Li comprava, era come una mania che procedeva dritta per la sua strada, velata di insensatezza. Eppure, erano acquisti premonitori: i pigmenti torneranno utili, un giorno, in quelle scrostature delle superfici pittoriche che saranno il tratto saliente della poetica dell’artista. Ghirri parlava di fantasma del colore di fronte alle foto in bianco e nero, Guerzoni di «colore sottinteso».
Il puzzle di scatti in mostra a Milano narra una storia potente, anche se si tratta di «opere irrisolte», come le ha definite Guerzoni. Con Ghirri erano amici, compagni intellettuali e contribuivano alla medesima costruzione di un paesaggio immaginario, ma erano diversissimi per carattere: quest’ultimo, come il Raskol’nikov di Delitto e castigo, voleva sempre tornare sul posto, non era mai contento del risultato. In più, sosteneva che la fotografia bastasse a se stessa, che la scelta dell’angolo da piazzare dentro al mirino fosse sufficiente, mentre per Guerzoni era necessario aumentare le informazioni della fotografia attraverso i gesti o lacerti di realtà. All’inizio, gli oggetti casuali, trovati in armadi di case disabitate, diventavano i protagonisti di azioni artistiche (come in progetto per Pavimento imbottito, 1970); poi, col tempo, finirono direttamente incollati sullo scatto, «brani» di un altrove possibile.
Per entrambi, comunque, ogni immagine ha vissuto in bilico, composta e assestata dentro la sua fragilità e forse è questa idea che, più di ogni altra, caratterizza il volto della rassegna Nessun luogo. Nessuna parte.