Molti in queste ore scriveranno che Günter Grass è un «classico» della letteratura tedesca e universale. E non v’è alcun dubbio, purché non si tolga a classico il valore di esempio paradigmatico per tutta un’epoca, nel bene e nel male. Tuttavia, Günter Grass non è destinato a essere ricordato solo nelle storie della letteratura. Perché è anche un esempio pressoché perfetto di quello che proprio i tedeschi definiscono «doppio talento». Grass è stato – con consapevolezza artistica e teorica – un incisore, pittore e illustratore di assoluta grandezza. Lo dimostrano le decine di volumi, mostre, interventi teorici che hanno fatto di lui un classico del rapporto tra la letteratura e le altre arti, soprattutto quelle figurative.

Si tratta di una corrente calda della letteratura che, anche nei paesi di lingua tedesca, ha conosciuto altre figure eccezionali: da E.T.A. Hoffmann ad Adalbert Stifter, da Wilhelm Busch, a scrittori significativamente contemporanei a Grass, come Friedrich Dürrenmatt o Peter Weiss, autori che mai seppero decidersi tra la vocazione pittorica e quella letteraria. Non è solo una questione autobiografica: questa «indecisione» è il sintomo di un’inestinguibile vocazione sperimentale che, tra l’altro, ha avuto il senso di mettere in crisi l’immarcescibile primato del testo nella cultura moderna. Proprio la «coazione a dipingere» è il segno di un’inesausta lotta contro la conclamata testolatria occidentale e, soprattutto nel Novecento, contro il trionfo del «linguistic turn», dagli eccessi strutturalisti alle infatuazioni del decostruttivismo.

Grass è uno di quegli autori che non ha avuto paura di sottoporre i suoi testi – affreschi epici, brucianti confessioni, fulminanti disamine del Novecento – al confronto con ciò che quei testi non sapevano dire, anzi per lo più nascondevano e occultavano, invece di rivelare. Basti pensare ai suoi costanti autoritratti ai margini delle opere narrative. Immagini dalle quali apprendiamo con certezza che si tratta di scritture autobiografiche, nonostante i toni epici e sociali. Ma si pensi anche alla liberatoria e «sovversiva» funzione di molte sue immagini esplicitamente sessuali, o disgustose, o comunque ai limiti del dicibile e del visibile.

L’immagine per Grass, che – non si dimentichi – si era formato alla Kunstakademie di Düsseldorf, è una sorta di cartina al tornasole della scrittura. Non solo la accompagna in una forma di concrescenza genetica che rende impossibile occuparsi di lui solo come scrittore – un errore che la critica letteraria ha fatto e continua a fare – ma della scrittura costituisce in un certo senso l’inconscio: molti dei suoi indimenticabili personaggi letterari sono il prodotto di una sorta di immaginazione attiva che li genera e in cui, post festum spesso, essi finiscono per dissolversi, dopo aver vissuto nella parola.

Tra i tanti contributi che Grass ha dato alla cultura del Novecento – non tutti, com’è noto, privi di ombre – difficilmente si potrà dimenticare il significato che le sue opere figurative hanno avuto nella sistematica demolizione delle sicurezze di una cultura che per millenni si è immaginata «verbale», solo a patto di reprimere e rimuovere quell’insano ospite della scrittura che è l’immagine, un alieno che non a caso viene espunto dalle storie della letteratura e che tuttavia vive e si riproduce oltre le fortificazioni dei testi. Tanto più oggi che la semplificazione mediale dell’immagine la rende onnipresente e invadente. A questa invasione, Grass ha aperto le porte.