Jean-Luc Godard nelle Histoire(s) du cinema tiene conto di una prospettiva “geografica” quando prende in considerazione il cinema dell’immediato secondo dopoguerra. Godard assegna al cinema italiano, e al neorealismo, un ruolo preminente, d’eccezione rispetto al resto del cinema mondiale: “I russi hanno fatto film di martiri, gli americani hanno fatto film pubblicitari. Gli inglesi hanno fatto quello che sempre fanno nel cinema: niente. La Germania non aveva cinema, non aveva più cinema. E i francesi hanno fatto Solo una notte […]. Invece con Roma città aperta l’Italia si è semplicemente riguadagnata il diritto per una nazione di guardarsi in faccia. E dunque è arrivato il sorprendente raccolto del grande cinema italiano”. E se questo è accaduto è perché: “La lingua di Ovidio e Virgilio, di Dante e di Leopardi, è affluita nelle immagini”.

In Godard abbiamo una geografia del cinema che risulta per molti versi ribaltata, rispetto alla “geofilosofia” che Deleuze costruisce (riprendendola da Nietzsche) in Che cos’è la filosofia?, dove le grandi tradizioni filosofiche sono legate agli stati-nazioni che hanno segnato la modernità europea (Francia, Inghilterra, Germania), che invece non sono stati in grado di creare molto nel disastro del secondo dopoguerra, dove un popolo come quello italiano (che veniva anche da un tradimento bellico), con una unità nazionale acquisita da neanche un secolo, è stato capace di reinventare il cinema mondiale con autori come Rossellini, De Sica, Visconti.

Emerge un primo fatto: filosofia e cinema non sembrano marciare allo stesso ritmo, sembrano prendere due strade diverse nel rapporto con gli stati-nazione di “appartenenza”. La geografia del pensiero filosofico moderno, corrispondente a quella delle grandi nazioni europee, non è la stessa geografia che il cinema disegna, soprattutto nella crisi del secondo dopoguerra, dove una nazione debolissima come l’Italia (e non di tradizione filosofica riconosciuta pari alle altre) è capace di reinventare il cinema.

Cinema e filosofia giocano dunque con gli stati democratici di “appartenenza” un ruolo non consonante, rispondono ad una ritmica e ad una posizione diverse. Se la filosofia si rapporta più decisamente con lo stato-nazione in cui viene prodotta, il cinema come forma di espressione estetica legata ad un dispositivo tecnico prescinde da tutto questo, gli è sufficiente la riacquisizione di una libertà e la forza per renderla espressiva: è un dispositivo che interagisce più direttamente con la “deterritorializzazione” capitalista, piuttosto che con le forme della statualità nazionale.

Detto altrimenti: se il rapporto con lo stato-nazione, in quanto “territorio” spirituale della natura “deterritorializzata” del capitale, è centrale per la filosofia, perché la creazione del concetto risponde anche a questo dettato (così abbiamo dei filosofi che hanno territorializzato la filosofia su concetti propri allo stato-nazione, sia pur dittatoriale: Heidegger e il nazismo, Gentile e il fascismo), per il cinema sembra l’opposto, e la sua potenza massima si sviluppa in un processo radicalmente “deterritorializzante”, che spinge le forme verso un piano di immanenza, piano della variazione infinita che sembra prescindere da ogni stato-nazione.

Il cinema in quanto arte novecentesca, legata ad una tecnica, arte espositiva e non cultuale direbbe Benjamin, è un’arte “capitalista”, e dunque prescinde più di altre dai perimetri nazionali e statuali (come emerge anche dalle logiche produttive, che oltrepassano molto spesso i confini nazionali). O meglio, il perimetro che definisce la concretezza di un “milieu” all’interno del quale il cinema può nascere e svilupparsi eccede ogni istanza nazionalistica, ma non una idea di “localizzazione”. Questo perimetro ”localizzato” è segnato da sentimenti, stati d’animo, stili di vita, modi di percezione “situati”, geograficamente e storicamente, ma non identificativi di uno stato-nazione. E’ quello che emerge dalle parole di Godard, dove il cinema neorealista non poteva non essere italiano, ma per una sorta di “sentimento della vita”, che emerge da quel popolo, e che è conseguenza di una lunga tradizione culturale, formata da lingua, poesia, arte, piuttosto che da illusioni e valori nazionali.

Il cinema sembra far i conti in primo luogo con realtà individuate e non-identificate, con una singolarità che accede ad universalità, sottraendosi alla generalità del concetto. Il cinema è l’espressione più diretta della capacità dell’immagine di dare forma al mondo, configurando l’unicità di corpi e cose. Se il cinema ha a che fare con una geografia sarà con il carattere situato del mondo, queste cose qui e non altre, questi corpi qui e non altri, questi luoghi singolari, questo gesto, questa espressione, questa tale atmosfera. E dunque in primo luogo ha a che fare con la geografia della materia: l’acqua o l’aria, la terra o il fuoco; ed ancora i deserti e le valli, le montagne e il mare. Su questa geografia degli elementi, Deleuze ha detto cose importanti, sul ruolo dell’acqua nel cinema francese o sugli stati atmosferici nel cinema espressionista.

Dunque, il concetto e l’immagine non marciano su binari paralleli: il concetto filosofico deve fare i conti comunque con il potere statuale e nazionale, l’immagine cinematografica e il dispositivo che l’alimenta possono prescinderne. Insomma, tra l’intelligibilità del concetto e la sensibilità dell’immagine cinematografica sembra crearsi una distinzione, forse anche una frattura, e sicuramente una non-coincidenza di valori geografici.

Come immaginare questo intervallo fra il sensibile e l’intelligibile? Come ricomporre il rapporto tra lo spirito, il concetto filosofico, e la natura, l’immagine cinematografica?

Detto altrimenti: come coniugare una “geografia antropica” (storica e nazionale) che segna il pensiero filosofico con una “geografia degli elementi” (naturale e senza stato) che sembra caratterizzare il cinema?

La risposta risiede in una concezione dell’immagine che la sottragga alla sua naturalità, consegnandola al suo ruolo eminentemente costruttivo. E costruzione significa organizzazione del sensibile cinematografico – i “blocchi spazio-temporali” di Deleuze – intorno all’idea.

Il processo che segna il carattere precipuo di una tale immagine è il montaggio. E’ il montaggio, l’immagine-montaggio (la centralità di un procedimento, di un principio, che parte da Ejzenstejn passa per Godard e arriva fino ad oggi, al digitale, al found footage), a far sì che la “naturalità” dell’immagine, mediata dalla “costruttività” del procedimento, permetta di accedere attraverso la potenza di un lavoro immaginativo ad una organizzazione del sensibile intorno ad una idea (l’idea stessa è ciò che si dà come immagine), che non rappresenta mai il pieno di qualcosa, semmai un vuoto generatore, una disponibilità, una potenza.

Ciò che la configurazione del sensibile opera è allora un’attualizzazione dell’Idea, ben distinta dal potere generalizzante e universalizzante del concetto. La potenza dell’immaginazione, la sua istanza costruttiva, è capace di mediare tra l’intelletto e la sensibilità, il concettuale e l’empirico. Ma questa zona “mediana” non è soltanto l’intermedio, è il “medium”, ciò che permette di dare forma agli oggetti della nostra sensibilità: “Il modo secondo cui si organizza la percezione umana, il Medium in cui essa ha luogo, non è condizionato – dice Benjamin – solo in senso naturale, ma anche storico”.

Dunque, c’è un “medium” che mediando tra intelligibile e sensibile ne consente la comunicazione, e che solo la potenza dell’immaginazione è capace di costruire.

Vediamo come, a partire da alcuni elementi della materia-cinema, possiamo individuare il formarsi di questa zona mediana.

Prendiamo la Luce. Da un lato è una materia su cui si fonda il dispositivo stesso foto-cinematografico, che è scrittura della luce appunto, statica (fotografia) o dinamica (cinema); dall’altro è qualcosa che concerne lo “spirito” (e dunque l’intelligibilità delle cose), e che dà presenza e visibilità al mondo, ne modella il suo profilo spaziale.

Su questo Merleau-Ponty, riprendendo Schelling, dice cose significative: “La luce può dunque essere considerata come materia, ma essa è anche qualcos’altro, è sottile, penetra ovunque, esplora il campo selezionato dal nostro sguardo e lo prepara per essere letto. La luce è una sorta di concetto che si aggira tra le apparenze, non ha un’esistenza soggettiva, se non quando diviene per noi. La luce non sa il mondo, ma io vedo il mondo grazie ad essa”.

Questo “concetto che si aggira tra le apparenze”, questa zona mediana tra l’intellegibile e il sensibile, frutto del lavoro dell’immaginazione, fa sì che il mondo sia, che venga alla luce, portando con sé qualcosa che alla luce non viene del tutto, che resta nascosto, che resta in “ombra”. Se La Luce pura è piano intensivo, dimensione ontologica, che porta il mondo ad essere percepito (il piano di luce-materia dell’immagine-movimento), senza che essa stessa possa essere percepita, questo venire a visibilità del mondo assumerà forme diverse. Il mondo percepito, che emana dalla invisibilità della pura Luce, può venire ad espressione cercando di esporre o nascondere questa Luce pura; cercando di modellarla tono su tono (le sfumature di grigio), o di comporla per forti contrasti (del bianco e del nero).

Le avventure della Luce definiscono il modo in cui l’immaginazione dà forma a quel “medium” che è condizione della percezione. E queste avventure possono percorrere tutti i momenti del conflitto (tra bianco e nero) o le sfumature della pura luminosità (del bianco sul bianco). E qui naturalmente, in una prospettiva geografica, sarà la tradizione tedesca, dal romanticismo fino all’espressionismo cinematografico, a giocare il ruolo più importante.

 

II convegno

“Geophilosophy of cinema” è il titolo del convegno internazionale che avrà luogo, dal 10 al 13 giugno 2015, presso la Universidad Nacional de las Artes di Buenos Aires. L’iniziativa è promossa, insieme alla rivista “Fata Morgana”, dall’Istituto Italiano di Cultura a Buenos Aires e dall’Eunic, dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, e da altri importanti atenei argentini (come la UBA), nonché da ambasciate e istituti di cultura europei.

Curatori scientifici del convegno sono Roberto De Gaetano, professore ordinario di Filmologia, e Daniele Dottorini, docente di discipline cinematografiche, presso l’Università della Calabria.

Il convegno declina una prospettiva di analisi teorica e filosofica del cinema, con una di tipo geografico, secondo l’ispirazione del Deleuze di “Che cos’è la filosofia?”; e metterà in campo un confronto aperto tra una tradizione europea di studio e di ricerca e una latino-americana. Numerosi studiosi animeranno le quattro giornate, aperte da una lecture di Roberto De Gaetano (Image and Medium. Starting from Gilles Deleuze), tra i quali: Dork Zabunyan (Syria, our Vietman. Geophilosphy of Images of Syrian Conflict), Josep M. Català Doménech (Passion and Technology. Cinema and the Techno-emotional Vanishing of Thought), Sergio Navarro Mayorga (Politics of the Image in Raul Ruiz), Edgar Castillo Doll (Representations of new Subjectivities in Contemporary Cinema), Bruno Roberti (Nomad Landscapes), Giuliana Muscio (World History: for a new Geography in Film Studies), Daniele Dottorini (Cinema and Passion for the Real: Alain Badiou and José-Marie Mondzain), e poi ancora interventi di Ileana Bîrsan, Eduardo Russo, Karl Sierek.

Durante il convegno sarà presentato il volume Cine y filosofia. Las entrevistas de Fata Morgana, che raccoglie, tradotte in spagnolo, alcune delle prestigiose conversazioni realizzate dalla rivista nei suoi quasi dieci anni di vita. I lavori vedranno inoltre sessioni parallele, tavole rotonde e panel dedicati al tema dell’alterità e alla coniugazione tra estetica e potere, tra cui Aesthetics and Politics of Cinema and Contemporary Space, Aesthetical Explorations at the Human Threshold. Ontologia, etica, politica, conoscenza e teoria del cinema e dell’immagine saranno i macro temi, affrontati attraverso il pensiero di autori come Gilles Deleuze, Jacques Rancière, Alain Badiou o figure ed autori della tradizione latino-americana. Uno degli obiettivi del convegno è quello di aprire una riflessione sui mutevoli legami tra immagini e luoghi, mettendo a fuoco le maniere e gli esiti con cui i processi di territorializzazione e de-territorializzazione segnano il cinema, e da questo sono, a loro volta, segnati.

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