Da quando più di quattrocento anni fa sono sbarcati negli Stati Uniti, gli afroamericani hanno dovuto far fronte al brutale martirio dei loro corpi. Quelle membra, indispensabili a edificare con il lavoro il paese più ricco del mondo, sono diventate campo di battaglia in una contesa infinita. Gli Usa hanno abolito la schiavitù nell’Ottocento, concesso i diritti civili nel Novecento, eletto un presidente nero nei primi anni Duemila, ma non sono riusciti a eliminare la discriminazione. L’America bianca ha sempre provato una malcelata attrazione per il nero e ha nascosto questa pulsione dietro un muro di violenza sadica che ha tenuto i corpi degli afroamericani incatenati nelle piantagioni o ammanettati in carcere. Questo primato del corporeo è stato contrastato per primo nell’epocale libro di W.E.B. Du Bois Le anime del popolo nero (1903), dove si parlava di cuori e anime, di musica e poesia. Cento anni dopo la società americana rimane un inferno, ci ricorda lo scrittore Ta-Nehisi Coates, parlando della difficoltà di «abitare i corpi neri» nella loro fragilità, bellezza e potenza.
Non a caso Coates ha anche scritto una serie di storie per il personaggio Marvel Black Panther. Il flessuoso principe africano veste il costume della pantera nera per combattere i malvagi di turno ma sfrutta un’iconografia che negli Stati Uniti ha un sapore «politico», difficile da maneggiare lontano dal medium artistico. Ricordiamo l’Uomo invisibile di Ralph Ellison: l’afroamericano è inesistente quando si parla di diritti ma è sempre sotto i riflettori quando si tratta di arti performative.

SUPERBOWL
In questo territorio si muove Hanif Abdurraqib per il geniale volume Piccolo diavolo in America. Un omaggio alla performance afroamericana (Black Coffee, 2022, pp. 280, euro 18). Uno dei capitoli è centrato sulla esibizione di Beyoncé per l’atteso show «dell’intervallo» nel Super Bowl 2016. L’artista, in un santuario dei valori tradizionali dell’America bianca, omaggia il rivoluzionario Black Panther Party, vestita da guerrigliera Panther con un coro di danzatrici militanti. L’estetica è quella del personaggio Marvel ma il brano attira le ire dei politici di destra per il messaggio anti-establishment.
Il poeta, saggista, romanziere Abdurraqib riflette su quanto le più significative performance dei neri – con estremi che vanno dalle maratone di ballo degli anni Venti al lunghissimo funerale per Aretha Franklin – abbiano rivoluzionato l’immaginario e scosso la società statuinitense.
Cresciuto come black muslim, orfano di madre, Abdurraqib trascorre una giovinezza irrequieta, come racconta nelle parti autobiografiche del libro, mentre oggi raccoglie premi su premi con i suoi long form su New York Times o Pitchfork. Gli esempi di arte nera come performance che Abdurraqib sceglie di rileggere gemmano l’uno dall’altro, con ragionamenti ellittici e l’irrompere del proprio io nei discorsi più articolati sulla discriminazione. ll libro si nutre di sinestesie continue tra storia, aneddotica, autobiografia. Musica, cinema, danza… e gli aspetti più dolorosi della vita quotidiana, diventano performance che i neri devono affrontare ogni giorno, su un palco illuminato o nel grande spettacolo della vita.
Ovviamente un discorso che mette al centro la performance parte con la danza e la disamina, quasi esistenzialista, dedicata alla figura di Don Cornelius, il presentatore di Soul Train, programma musicale che dal 1971 e per ben 35 anni ha portato in televisione r’n’b, soul, funk, pop, hip hop afroamericano. Il perno del programma era la Soul Train line: su un brano del momento – ad esempio di Earth, Wind & Fire o Rufus & Chaka Khan – si formavano due linee parallele di ballerini e mentre il brano procedeva, dal fondo si staccavano a coppie i danzatori che davano la propria interpretazione del ritmo. Era una esplosione di creatività individuale all’interno di un rito collettivo. Cornelius usava la black music per mostrare in televisione a tutta l’America un popolo che non era solo votato alla sofferenza, anzi voleva «ritrarre gli afroamericani mentre obbedivano unicamente al proprio ritmo e ai propri desideri, e non in risposta all’apertura o alla violenza del resto del paese».
Si potrebbe accostare la Soul Line alla pratica del cypher: nato nel Bronx anni Settanta per ballare la break dance e parte integrante dell’immaginario hip hop. Hanif invece fa altro, procede a ritroso nel tempo di quasi due secoli fino al Maestro Juba, l’inventore del tap dancing; un ballerino così abile da impressionare lo scrittore inglese Charles Dickens quando lo vede esibirsi in una sala dei famigerati Five Points di Manhattan e lo descrive nel suo memoir di viaggio Diario americano (1842).

RIVINCITE
Due artiste consentono all’autore ulteriori variazioni su danza, razza e genere. La prima è Josephine Baker. Alla metà degli anni Venti divenne una stella in Francia come ballerina della Revue Négre. Quando nei primi anni Cinquanta tornò nella sua città natale a St. Louis durante lo spettacolo tenne un discorso al pubblico dove rievocò la sua fuga dalla famiglia e dal paese che le avevano imposto condizioni intollerabili. Decenni dopo toccherà a Whitney Houston, fischiata ai Soul Award perché non sa ballare, prendersi la rivincita durante un discorso pubblico che sposta in avanti l’asticella sui canoni di «nerezza» al femminile nel pop anni Ottanta. In un altro punto del libro si porge omaggio a Merry Clayton, responsabile del bellissimo controcanto in Gimme Shelter dei Rolling Stones. L’oscura corista, in dolce attesa, venne svegliata nel cuore della notte per correre in studio a dare un sapore gospel al brano. Fu una performance esplosiva che con poche note cambiò la canzone e per oltre venti anni in ogni live degli Stones è stata rievocata dal duetto Mick Jagger/Lisa Fischer.
Il film Green Book (2018), dedicato alla figura del pianista virtuoso Don Shirley, ispira ad Abdurraqib una riflessione sul rapporto tra bianchi e neri nel cinema americano; quasi un sottogenere a sé, con regole proprie: «Sono film che non si impegnano davvero a demolire il costrutto della superiorità razziale, né a rivelare come abbia fatto il paese ad arrivare a quello stato di cose. Quei film cominciano a metà di un presunto traguardo e poi impiegano due ore a raggiungerlo, un minuscolo passettino alla volta, prima di alzare le braccia in segno di trionfo in uno scroscio di applausi». Questo capita in particolare con pellicole che hanno come soggetto grandi sportivi. Non arrivano mai al nocciolo della questione, ad affermare che «il razzismo è un fatto di potere, e che per risolverlo ci sia bisogno, almeno in parte, di gente disposta a cedere il proprio potere». Anche nello sport i neri scardinano il sistema a modo loro: «Nella boxe l’entrata in scena è un’arte», dimostra Mike Tyson sulle musiche dei Public Enemy. Si sale sul ring come si sale sul palco: James Brown insegna.
A proposito: esibizione può significare anche sparatoria, senza dover necessariamente pensare all’ hip hop. L’autore rispolvera un litigio dei primi anni Sessanta tra James Brown e Joe Tex: storie di canzoni plagiate, donne contese, soldi, invidia. Una vicenda finita a pistolettate. Sembra un b-movie (con un cameo di Otis Redding che schiva le pallottole nascondendosi dietro un pianoforte) invece è una storia vera, i cui echi si rintracciano nel brano Funky Side of Town (1972). È la performance: si forgia nelle difficoltà, ma termina con il produrre – anche suo malgrado – arte.