Non contento di essere la prima entità statale al mondo ad aver convertito al biologico il 100% della sua produzione agricola, ha accumulato negli anni virtù e primati invidiabili. Questo esempio di cambiamento ambientale e umano è lo Stato himalayano del Sikkim, 7 mila kmq, il secondo più piccolo della Confederazione indiana, incuneato fra Cina, Nepal e quel Bhutan che ha inventato l’indicatore della felicità interna lorda. Insieme a 600 mila abitanti – il 70% dei quali impegnati in attività agricole e nell’indotto – il Sikkim conta un’elevata biodiversità, una copertura forestale che ormai supera il 47% del territorio e un gran numero di ghiacciai in sofferenza per i cambiamenti climatici.

NEL 2003, prendendo atto degli effetti nefasti dell’agricoltura industriale per gli ecosistemi, la salute e il clima, l’Assemblea legislativa del Sikkim decise la svolta biologica; e la portò al successo. Un apparente miracolo spiegato con semplicità da Pawan Kumar Chamling, capo del governo (chief minister) del Sikkim, a Roma il 15 ottobre per ricevere il Future Policy Award, un premio dedicato alle migliori politiche globali per l’agroecologia. «Se siamo riusciti noi a convertire tutto lo Stato a una produzione agroalimentare senza chimica di sintesi, lo si può fare anche altrove. Si può arrivare a un’agricoltura e un’alimentazione senza veleni e favorevoli al clima in tutto il mondo entro il 2050. Ci vuole volontà politica e molto lavoro. Non fu facile; i politici dell’opposizione ma anche le comunità agricole non capirono subito». Ma in pochi anni, già alla fine del 2015, il Sikkim aveva convertito in coltivazione biologica certificata 76.169.604 ettari dei 77.000 coltivati.

«Nel 2016 il primo ministro dell’India Narendra Modi è venuto e ha dichiarato il Sikkim primo Stato totalmente bio della Confederazione. L’India si sta ispirando al nostro lavoro e altri Stati iniziano a muoversi, per esempio il Kerala», continua il capo del governo, che tuttavia con una punta di orgoglio tiene a situare la sua realtà rispetto al resto: «Il Sikkim è lo Stato meno inquinato e più pacifico dell’India e dell’Asia. Non ci sono discriminazioni nei confronti delle donne. Non c’è miseria. Né conflitti di casta o tensioni religiose».

ANCHE IN QUESTA SITUAZIONE pacificamente favorevole, l’impresa di convertire all’agroecologia l’intera produzione alimentare si scontrava con limitate risorse economiche e una condizione territoriale non certo facile, lassù sull’Himalaya fra i ghiacci minacciati. Come ci sono riusciti? La Sikkim Organic Mission ha coinvolto tutti, popolazione e istituzioni governative (compresa la polizia di frontiera per evitare ingressi sgraditi). Il piano d’azione e la road map non hanno lasciato fuori nulla, pur andando per gradi: progetti pilota, azzeramento dei sussidi ai fertilizzanti di sintesi nel 2008, messa al bando della vendita e dell’uso dei pesticidi non naturali, economia circolare con il recupero degli scarti nelle unità agricole, creazione di unità di produzione di biofertilizzanti e di semi biologici, laboratori per l’analisi del suolo, tecnologie post-raccolto, luoghi di trasformazione, sistemi di certificazione; e insieme alle infrastrutture e norme, tanta formazione, tecnica e motivazionale, soprattutto degli attori principali, i coltivatori.

AGLI INIZI DI OTTOBRE, al Congresso internazionale sulla biodiversità tenutosi a Dehradun in India, il primo ministro del Sikkim e l’associazione Navdanya International hanno annunciato l’iniziativa per un Himalaya totalmente biologico e biodiverso, con la diffusione del modello che il Sikkim ha costruito nell’arco di 15 anni. Spiega Pawan Chamling: «Pensiamo ai giovani. L’India ne è piena, e l’agricoltura deve diventare più attraente ai loro occhi. In Sikkim ci sono oggi giovani agricoltori istruiti che coltivano con successo anche per i mercati urbani». Viene da pensare alle aree fragili e abbandonate anche in Italia.

IL CICLO VIRTUOSO OPERATO IN SIKKIM fra agricoltori, ambiente, comunità e governo è andato ben oltre l’abbandono dell’agricoltura chimica: ha migliorato le condizioni di vita e di salute delle famiglie contadine, creato lavoro e incoraggiato l’ecoturismo. Il 100% bio nel Sikkim non è venuto dal nulla. Dal 1995, lassù su quello spicchio di India la lista dei primati rivela coraggio legislativo, decisione attuativa e sensibilità della cittadinanza. Pawan Chamling ha accennato giusto ad alcuni punti, ma nella pubblicazione illustrata e sintetica stampata per il premio del 15 ottobre, la lista è infinita. Dal bando alle borse di plastica e polietilene nel (lontano) 1997 a quello, nel 2016, degli usa e getta come bicchieri piatti, bottiglie di plastica, contenitori di polistirolo e via dicendo. Dall’educazione ambientale obbligatoria nelle scuole ai comitati per l’ecosviluppo a livello di panchayat (consigli di villaggio). Dal divieto di uccisione di animali selvatici (non solo il panda minore o panda rosso, animale simbolo) al bando al pascolo nelle foreste protette. Dal divieto di fumo nei luoghi pubblici a multe per i rifiuti randagi. Dalla tutela degli alberi alla promozione di alternative alla legna da ardere. Dai gemellaggi di amicizia fra persone e alberi alla chiusura di progetti idroelettrici per ragioni ambientali. Per non dire di quando, negli anni ’90 – leggiamo su Down to Earth – la popolazione del Sikkim riuscì a far annullare un piano dell’esercito indiano: il poligono di tiro G nel Nord del Sikkim vicino alla frontiera fra India e Cina, su 17.000 ettari di riserva forestale ricchissima di biodiversità.

MA, PUR DA QUELL’ALTEZZA, «vogliamo scoprire quali progressi si compiono in altre zone del mondo» ha aggiunto a Roma il primo ministro. Dell’Italia, gli operatori dell’agroecologia sono in grado di riferirgli il bello e il brutto: il bio è quasi il 15% della superficie agricola coltivata (un primato europeo), ma al tempo stesso siamo i principali consumatori in Europa di pesticidi (5,7 kg per ettaro contro una media di 3,8). E poi, come denuncia il rapporto Cambia la terra promosso da Federbio, al bio italiano pur così esteso va solo il 2,9% dei fondi della Politica agricola comune. Chi usa il micidiale glifosato prende più fondi di chi coltiva proteggendo l’ambiente.