Non esiste altra epoca in cui tanta gente abbia avuto accesso a così tante informazioni, eppure mai come oggi il numero dei Paesi dove un giornalista non può azzardarsi a scrivere la verità senza rischiare la pelle, si assottiglia a vista d’occhio. Un paradosso ma tant’è. Così, se in cima all’annuale classifica di Reporters Sans Frontières ritroviamo, come era prevedibile, i soliti regimi autoritari di Corea del Nord, Turkmenistan, Cina, Iran, Nicaragua tallonati da quelli sempre in preda a guerra civili di Iraq, Libia, Siria, Somalia, o in balia dei narcotrafficanti come Messico, Colombia o Guatemala, il fenomeno più impressionante è quello dei paesi sulla carta democratici dove poteri forti e criminalità organizzata rendono il mestiere del giornalista vera e propria mission impossible. Anche nel cuore d’Europa: Serbia, Montenegro, Ungheria, Malta… per non parlare della Slovacchia scivolata al trentacinquesimo dopo l’omicidio di Jac Kuciac che indagava su finanziamenti europei in odor di ‘ndrangheta.

In aggiunta al carcere dei dittatori, al tritolo dei terroristi e al piombo dei mafiosi, ”ci dice la giornalista Désirée Klain, direttore artistico e ideatrice di Imbavagliati, primo Festival Internazionale di Giornalismo Civile, “intimidazioni meno cruente ma non meno vigliacche sono dalle nostre parti le cosiddette querele bavaglio, messe preventivamente in campo dai poteri forti per indurre all’autocensura, così come di pari passo crescono le aggressioni sui social dove squadristi della tastiera al soldo di politici locali e piccoli criminali seminano minacce e calunnie per indurre giovani blogger a più miti consigli”. E quando non ci riescono coi manganelli virtuali passano direttamente ai pestaggi reali come, a quanto pare, sempre più spesso accade in certi paesi dell’hinterland casertano. Anche per questo l’Italia continua da anni a vagolare tra il cinquantesimo e il quarantacinquesimo posto della classifica, grazie soprattutto alla succitata ‘ndrangheta che con cosa nostra e camorra fanno in Italia bello e cattivo tempo. Non è un caso allora che il Festival Imbavagliati abbia come simbolo il volto sorridente di Giancarlo Siani, il reporter assassinato dalla camorra nel 1985. E non è un caso nemmeno che nell’atrio del PAN, sede storica del Festival nel cuore della città, sia esposta proprio la Mehari di Giancarlo, quella jeep di plastica verde dove il giovanissimo precario de Il Mattino fu raggiunto dai killer. Non meno toccante, nell’attigua Sala della Memoria, la mostra fotografica Noninvano realizzata dalla Fondazione Polis -fondata da Paolo Siani, fratello di Giancarlo- e dedicata a tutte le vittime innocenti della camorra: impressionante carrellata di centinaia e centinaia di volti tra i quali tanti, troppi bambini.

I bambini appunto, sono quest’anno il tema centrale della manifestazione realizzata insieme alla Federazione Nazionale della Stampa, l’Usig Rai, il Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Articolo 21 e il patrocinio di Amnesty International e Unicef Italia: Guerre innocenti, una luce accesa sui trentaquattro milioni di minori nel mondo che vivono in mezzo alle guerre senza uno straccio di protezione internazionale. In Siria come in Afghanistan, nello Yemen come nel Sudan.

Nel mio paese”, ci racconta il giornalista sudanese Abdel Aziz Yakub, “l’ottanta per cento dei combattenti ha tra i 12 e i 18 anni, parliamo di circa 19.000 minori che sono stati rapiti, drogati e addestrati a uccidere. Spesso rimandati ad assassinare nei loro stessi villaggi di provenienza. Oggi, dopo 15 anni di guerra abbiamo intorno ai 17.000 bambini scomparsi. E ora che la guerra è finita le cose vanno anche peggio perché in vista della costituzione di un esercito nazionale, ogni milizia vuole arrivare all’appuntamento reclutando il maggior numero di soldati possibile, per questo rapiscono ancora più bambini.” A rincarare la dose è Jok Madut Jok che nel Sudan del Sud aveva fondato una scuola primaria, era quindi stato anche viceministro e poi, uscito miracolosamente vivo da un assalto dei miliziani, costretto a espatriare negli Stati Uniti: ”donne stuprate, bambini castrati, intere famiglie bruciate vive nelle capanne, ma una società che non ama i bambini ha perso la sua anima…“ si commuove, “…ricordatevi sempre di amare i bambini!”

Pur di mettere d’accordo i due signori della guerra nemici, Salva Kiir e Reik Machar, rispettivamente presidente e vicepresidente del Sud Sudan,” ci dice Enzo Nucci corrispondente Rai per l’Africa sub-sahariana, “Papa Francesco li aveva invitati in Vaticano e al termine di una funzione a San Pietro ha baciato i piedi a questi due criminali di guerra, un atto di straordinaria potenza. Solo che mentre il Santo Padre compiva questo incredibile atto simbolico in nome della pace, Salva Kiir pagava tre milioni e 700mila dollari ad alcune potenti lobbies americane per convincere media e opinion-makers internazionali a non istituire quel Tribunale per i crimini di guerra che è parte integrante degli accordi sul tavolo delle trattative di pace.”

Altra giornalista minacciata che in Sudan è stata anche arrestata per uno scatto fotografico di troppo è la salernitana Antonella Napoli, presidente tra le altre cose dell’associazione Italians for Darfur Onlus. Recentemente entrata nella fase di pre-selezionata del Premio Pulitzer per il suo lavoro di reporter di guerra, la Napoli ha investigato su un fenomeno sconvolgente mai raccontato prima, quello delle bambine-soldato in Uganda. “La piccola Suleya stava per compiere 12 anni quando i miliziani irruppero nel suo villaggio portandosela via insieme a tutti gli altri bambini della comunità. Lei e le altre piccole furono subito infibulate, violentate e drogate; poi Suleya fu scelta per uccidere un suo amichetto d’infanzia troppo debole per essere a sua volta trasformato in un assassino.” 

Dopo le tragedie di Sudan e Uganda, irrompe nel festival la Siria di Maha Assan scrittrice e giornalista curda perseguitata dal regime di Assad che ha rievocato la perdita della madre durante i violenti bombardamenti sulla città di Aleppo. Quindi l’Afghanistan dello scrittore Alì Eshani che racconta due fratelli in fuga dai talebani attraverso il Pakistan, l’Iran, l’Iran, la Turchia, passando per la Grecia fino all’Italia di Salvini. E ancora Libia con la proiezione del film documentario Freedom Fields di Naziha Arebi (la prima regista-donna a girare in Libia), segnalato da The Guardian tra le dieci pellicole civili più importanti dell’anno. Insomma, dando voce a quei giornalisti che ogni giorno nel mondo rischiano pestaggi, carcere e torture, “Imbavagliati “ mette a nudo realtà forse troppo dure per irrompere nei telegiornali a ora di cena. Ma a quanto pare anche in tutte le altre edizioni. Sia come sia la quinta edizione di questo bel Festival Internazionale di Giornalismo Civile si chiude con una proposta radicale: quando a subire minacce o violenze è un giornalista sia prevista un’aggravante: quella di attentato alla Libertà di Stampa.