Sul manifesto Giorgio Nebbia definì la vicenda Ilva un tragico dilemma per la difficoltà di conciliare l’utile produzione di acciaio con salute e sicurezza. Tra gli anni ’60 e ’80 si svilupparono esperienze operaie autogestite che mettevano in discussione l’immutabilità dei modi di produzione. Il punto di partenza erano le condizioni di lavoro, il punto di arrivo proposte per modificare i cicli produttivi e ridurre i loro impatti. Queste esperienze uscirono dalle fabbriche contribuendo alla nascita e allo sviluppo dell’ambientalismo. Il conflitto con il capitale non si esauriva in rivendicazioni salariali ma costringeva a innovazioni e investimenti che hanno anche salvaguardato l’occupazione fino all’attacco dei primi anni ’80. Gli strumenti principali erano il gruppo omogeneo dei lavoratori esposti ai medesimi rischi, la non delega, la costruzione di una scienza popolare dell’esame e della critica dei cicli produttivi. Non è un caso che la storia recente di Ilva sia partita dai reparti confino dei Riva per tacitare il conflitto e sia passata per il consociativismo di alcuni sindacati. I cicli produttivi non sono stati messi in discussione in una parabola di obsolescenza e insicurezza progressive. Non sono bastate le norme introdotte e ancor meno la loro tardiva e parziale applicazione.

In aprile Mittal depositava la relazione annuale sull’attuazione delle prescrizioni dichiarando di essere in linea con i tempi e gli interventi previsti e di aver ridotto le emissioni. Ciò strideva con la denuncia delle associazioni sul mancato miglioramento, anzi peggioramento, della qualità dell’aria. Parliamo di interventi che andavano realizzati già tardi entro il 2016 e che i diversi decreti salva Ilva hanno posticipato all’agosto 2023. Nel rapporto si presenta una contabilità al ribasso delle emissioni dovuta principalmente alle ridotte produzioni: meno acciaio, meno portate emissive, meno rilasci ambientali. Dati falsati anche perché gli obiettivi dell’Autorizzazione d’Impatto Ambientale (Aia), impropriamente, sono per gruppi di impianti: si basano principalmente su stime (con forti incertezze, come per le emissioni diffuse) e non su dati da monitoraggio continuo.

Il ministro dell’Ambiente ha disposto il riesame dell’Aia all’esito della valutazione del danno sanitario che ha evidenziato «un rischio residuo non accettabile per la popolazione anche a valle del completamento degli interventi previsti». Si ammette il fallimento dell’ambientalizzazione perché non rigorosa verso i gestori che si sono succeduti. Mittal è subito ricorsa contro questa decisione. La vicenda si intreccia a quella degli interventi di bonifica per l’area di Taranto, non solo Ilva, Sito di Interesse Nazionale dal 2000. Da ultimo la questione dello scudo penale di cui abbiamo qui già scritto (11.07.2019): è pacifico che Mittal non debba rispondere delle gestioni precedenti ma è responsabile per quanto ha fatto o meno dalla presa in carico dell’azienda e dalla voltura dell’Aia. Le attuali vicende degli esuberi mostrano che lo scudo non è il nodo (se non per l’assurda ipotesi di rilanciarlo per tutti) e confermano una verità scomoda: non esiste posto di lavoro garantito quando lo stesso si basa sull’insicurezza per i lavoratori e l’inquinamento dell’ambiente.

Come se ne esce? Riprendendo l’iniziativa operaia, attualizzandola e unendola all’azione dei comitati tarantini; attuando le migliori tecnologie disponibili; passando a un diverso processo produttivo, senza la fase obsoleta di riduzione del minerale ferroso mediante coke, con riduzione diretta (Direct Reduced Iron) in forni elettrici ad arco (Eaf). Si eliminerebbe l’uso del coke, principale fonte inquinante connessa con l’area a caldo. In una logica di economia circolare va ridotta l’estrazione dei minerali ferrosi e la produzione va ricalibrata sulla disponibilità di rottame per riciclare il ferro già in uso. Utopia? Necessità se non si vuole l’autodistruzione ambientale. Un percorso comprensivo delle bonifiche degli ambienti di lavoro (ad esempio l’Afo2 sotto sequestro per un infortunio mortale) e del sito di interesse nazionale (che necessita di molti lavoratori). Una produzione moderna e a ridotto impatto dell’acciaio davvero necessario in un’economia locale svincolata dalla dipendenza da Ilva. Come attivare un percorso virtuoso in questa direzione? Con una parziale o temporanea rinazionalizzazione? Può essere uno strumento, non senza la definizione di una vertenza comune mediata dal confronto tra lavoratori e cittadini i cui esiti andranno posti ai responsabili: azienda e istituzioni. Non se ne esce se i lavoratori non difendono il loro destino e la qualità della vita in fabbrica e nel territorio. Non ci sono scorciatoie. Solo lo sforzo continuo per costruire unione su obiettivi condivisi e rigorosi delle realtà lavorative e dei cittadini.

* presidente Medicina Democratica, tecnico della Prevenzione