Per qualcuna il vissuto è un punto di partenza, per altre un’ispirazione ma il dato comune, consapevolmente «rivendicato», testimonia la necessità di una relazione profonda con le storie narrate. E non si tratta semplicemente di riferimenti autobiografici, anche perché quasi sempre questa autobiografia – nel passaggio a una sorta di autofinzione – cerca una dimensione che la oltrepassi interrogando temi universali. È dunque l’elemento personale uno strumento privilegiato nel racconto del mondo, nella ricerca di una chiave «contemporanea» capace di esprimere pienamente il confronto col tempo presente e con le domande che questo pone? Di certo è una possibilità che attraversa il cinema e che ritorna nel lavoro di alcune registe italiane; un’affinità che oltrepassa le generazioni, che non riguarda l’uso specifico di un «genere», il quale anzi viene tradito o superato grazie a un approccio in cui «documentario» e «finzione», luoghi del cuore e geografie del vissuto, scivolano l’uno nell’altro.
Quasi come in un incantesimo, la materia viene rimodellata in racconto, esplora direzioni impreviste, affronta spaventi e allegria, si fa terreno di battaglia, indagine umana, illuminazione critica, pensiero politico. Non si tratta di una caratteristica esclusivamente femminile perché la geografia sentimentale di luoghi o di figure della memoria più intima ritorna in ogni forma letteraria, così come l’opera delle cineaste in questione presenta sfaccettature e sguardi sul mondo molto diversi a cominciare dalle storie che affrontano, dalla realtà che vogliono illuminare, dai personaggi che mettono in scena. Ciò che sembra comune è la posizione che ciascuna sceglie in questo incontro tra autobiografia e narrazione, sia che parli di donne per interrogarne i codici della rappresentazione, che utilizzi la commedia per cogliere l’essenza del reale, che cerchi negli archivi privati una condizione collettiva, che affronti i conflitti e le contraddizioni del proprio tempo.
L’io, celato o sovraesposto, reso altro nella distanza della narrazione, costruisce una nuova poetica, uno sguardo analitico mai neutro, l’ipotesi di un cinema formalmente politico che all’asserzione ideologica oppone l’indagine aperta, un senso della realtà mai banale fondato sul legame intimo tra le vite dei protagonisti e i luoghi dove accadono. (…)
Cosa porta una giovane donna spezzina nelle case popolari (Housing, 2010) o lungo le vie imprevedibili dell’esorcismo (Liberami, 2017)? «Il filo conduttore nelle mie storie, che sono tutte molto lontane da me,dice Federica Di Giacomo,  è la narrazione di una follia lucida…. Sono esperienze in bilico tra la lucidità e una creatività un po’ folle, appunto, con cui questi personaggi per sopravvivere rielaborano le proprie esistenze come facevo anche io quando ero ragazzina proiettandomi altrove con la fantasia». (…) «Lavorare su film strettamente legati all’esperienza personale dell’autrice o dell’autore porta a utilizzare la memoria non per ripercorrere i fatti ma per interpretare meglio la loro storia». Ilaria Fraioli – montatrice di Alina Marazzi, Anna Negri, Francesca Comencini è la complice più sensibile nel cinema italiano di registi che si immergono nei vissuti e cercano se stessi attraverso la loro opera o tra le pieghe di un archivio intimo e collettivo (…)

Laura Bispuri Quando ci sono entrambi gli elementi, aderenza e sincerità, il film riesce a smuovere qualcosa dentro di me», spiega Laura Bispuri, autrice di Vergine giurata (2015) e Figlia mia (2018). E aggiunge: «Lo stesso cerco di fare nel momento in cui non sono una spettatrice, ma un’autrice. Per questo, quando scelgo una storia, in primo luogo cerco di riconoscere questa mia aderenza, questa «appartenenza», e in secondo luogo cerco di capire se quel racconto, al di là dell’importanza che ha per me, può parlare a più persone, se può arrivare a essere universale». Donne che sono quasi sempre incastrate dentro a delle gabbie, donne che io prendo per mano, con cui faccio un viaggio e che alla fine di questo viaggio io devo per forza liberare «Questo elemento è quello in assoluto più vicino a me, è qualcosa di viscerale che io sento e che accompagna sempre il percorso narrativo dei miei film.

Alice Rohrwacher È lei, Alice Rohrwacher, quella bambina che conquista una nuova consapevolezza attraversando, come nella bella immagine finale di Corpo celeste, il confine di una caverna platonica (il cinema?) oltre al quale si manifesta una diversa realtà più vicina ai suoi desideri? O è forse la Gelsomina di Le meraviglie che ribellandosi all’ordine familiare – soprattutto paterno e comunque patriarcale, pure se mascherato da una patina «alternativa» – riesce a tornare indietro, quasi pacificata, perché forte della sua nuova libertà? Poco importa. La forma autobiografica è piuttosto un modo di relazionarsi al mondo, dove ciascun frammento di vissuto trova la sua collocazione che lo trasforma in narrazione della realtà. «Molti elementi che narro mi appartengono, il mondo delle api, la famiglia multilingue, il territorio vicino a quello dove sono cresciuta, eppure Le meraviglie è una fiaba che parla di un Re con quattro figlie che incontrano una fata… »

Costanza Quatriglio In molte sue storie ritorna il lavoro ma forse ciò che le unisce è soprattutto la presenza di personaggi che lottano per resistere a una realtà che vuole sopraffarli, che si oppongono con la forza del proprio essere al mondo, anche a prezzi altissimi, agli imbrogli e alle violenze, alle ipocrisie dei potenti.
«Alcune sono storie che rispecchiano la mia formazione, ho studiato giurisprudenza, mi appassionano le questioni che riguardano il diritto e la giustizia, sul confine che c’è tra l’ordine e la giustizia, che è qualcosa che a volte appare così distante da questo mondo. Parlare di giovani, di bambini, di giovanissimi migranti (Il mondo addosso, 2006) porta anche a farsi domande sull’identità e sullo sradicamento, che oggi, più che mai, mi sembra LA grande questione del nostro tempo. Poi ti accorgi però che nei temi più dichiarati entrano all’improvviso altri aspetti del vissuto personale.

Cecilia Mangini «Mi considero una documentarista,mi sono considerata sempre tale. Il documentario per le sue condizioni produttive permetteva una libertà di esprimersi che altrove non era possibile. Inoltre, anche se può essere scritto,mantiene una permeabilità al reale che la finzione, per ragioni economiche, non può permettersi.
Il bello di un documentario è capire a 360 gradi la realtà che si sta filmando» – spiega Mangini. Quando torna dopo lunghi anni a girare insieme a Mariangela Barbanente (In viaggio con Cecilia, 2013), la ritroviamo di nuovo in Puglia, davanti ai cancelli dell’Ilva, con gli operai in lotta, dove aveva filmato con Del Fra Comizi d’amore 80. Questa libertà del mezzo è la sintesi di un personalepolitico (o politicopersonale) intimamente connessi, l’uno parte dell’altro in una prima persona traslata in cui il vissuto si cela all’interno dell’esperienza collettiva.

Fabiana Sargentini «Se non fossi nata in una famiglia di galleristi avrei scelto come strumento espressivo la performance esponendomi di più, anche se forse non è nelle mie corde. Però i luoghi del cuore sono il riferimento in ogni mio progetto, le mie storie hanno sempre uno spunto autobiografico. Ho girato Se perdo te nell’appartamento del mio compagno di cui avevo le chiavi, mentre lui non c’era. L’ha vissuto come un gesto di invasione, una violenza, per me era un modo di trasporre artisticamente il mio dolore, una celebrazione catartica. A quel punto ho capito che era una storia davvero finita, parlavamo due lingue diverse». Nel passaggio alla finzione con il primo lungometraggio, Non lo so ancora (2012), l’incontro tra due incertezze esistenziali, una donna che attende di sapere se sarà madre (Angela Finocchiaro) e un uomo anziano (Giulio Brogi) che deve scoprire se è malato, la prima persona si distanzia nella narrazione.