Il misterioso «uomo di Denisova», la specie umana che, circa cinquantamila anni fa, conviveva con Neanderthal e sapiens, oggi è un po’ meno misterioso. In uno studio appena pubblicato sulla rivista «Cell», un gruppo di ricerca guidato da Liran Carmel dell’università ebraica di Gerusalemme ha svelato la ricostruzione del volto di una ragazza denisoviana a partire dagli scarsi resti ritrovati sui monti dell’Altai, in Russia.
Le montagne russe non sono il primo posto che viene in mente per darsi un appuntamento. Eppure, proprio su quelle alture da centinaia di migliaia di anni si incrociano specie umane moderne e antiche, «denisoviani» inclusi. Il loro nome deriva dalla «grotta di Denisova», una caverna con vista sul fiume Anuj e un bel soffitto alto, comodamente collegata a grotte più piccole. Nel Pleistocene, doveva sembrare una residenza ambita come un attico a Manhattan: la grotta è stata abitata in modo quasi continuativo per trecentomila anni anche da Neanderthal e sapiens. Il commento più recente di un visitatore (presumibilmente sapiens) su Google Maps la descrive così: «bella zona ma senza wi-fi».

TRA TUTTI I REPERTI ritrovati, l’attenzione dei paleontologi si è a lungo concentrata soprattutto su un dito e un dente. Più o meno tutto quello che sappiamo sui denisoviani deriva da questi due frammenti, da cui recentemente si è riusciti a estrarre il Dna. Può sembrare poco, ma i paleontologi sanno fare miracoli.
Dalle dimensioni una falange si può capire la precisione nell’uso delle mani, dunque l’abilità nel procurarsi manufatti per cacciare, accendere un fuoco o cucinare. Dalla forma di un molare, si intuisce che tipo di cibo mangiassero e quanto fosse ampia la mandibola che lo ospitava. Il Dna, invece, contiene molte più informazioni.
Ogni specie ha il suo Dna specifico, una sequenza di «basi» che contengono le istruzioni dette «geni» necessarie ad assemblare le proteine su cui si basa il funzionamento del nostro organismo. I geni, però, sono molto simili in specie diverse. Noi e gli scimpanzé li condividiamo al 99%, e persino con una banana ne abbiamo una gran parte in comune. Le piccole variazioni hanno permesso di capire che i denisoviani sono una specie «cugina» dei neanderthal: sono probabilmente il risultato di una stessa migrazione dall’Africa e si sono differenziati circa quattrocentomila anni fa. Aborigeni e melanesiani conservano caratteristiche genetiche denisoviane, ma anche i nativi americani.

La somiglianza tra i geni di popoli così lontani non aiuta granché. Non sono i geni a differenziare gli organismi, infatti, ma la loro «espressione»: il livello di attivazione dei singoli geni per produrre le corrispondenti proteine. L’espressione genica è più variabile, anche all’interno dello stesso individuo. Ad esempio, nei globuli rossi il gene che codifica la proteina emoglobina è molto più attivo che nelle cellule delle ossa. Il mix di espressione genica distingue un individuo dall’altro, e le specie tra loro.
Sull’espressione, però, sappiamo ancora molto poco. Per esempio, che l’espressione di un gene è correlato alla «metilazione» del Dna, cioè alla presenza di certi gruppi chimici nelle vicinanze del gene. Studiando la metilazione del Dna denisoviano, si può risalire (molto approssimativamente) a quanto ogni gene fosse attivo nelle loro cellule ossee. E ricostruire, con un grado di incertezza ancora maggiore, le dimensioni del cranio e l’aspetto del volto. È un processo lungo e complicato. Prima di applicarlo ai denisoviani, Carmel e colleghi lo hanno testato su neanderthal e scimpanzé, di cui conosciamo sia il profilo genetico che lo scheletro reale. In questi casi, sono riusciti a collegare le informazioni sull’espressione genica alla morfologia in oltre l’80% delle caratteristiche somatiche considerate. Forti di questo risultato, hanno ripetuto l’analisi sui denisoviani, generando così la ricostruzione che vedete in questa paginale: il ritratto di una tredicenne ragazza di Denisova, che magari un giorno smetteremo di chiamare «Homo».

L’IDENTIKIT non serve solo a disegnare un personaggio perfetto per il prossimo film della Pixar. «L’anatomia dei denisoviani può aiutarci a capire l’adattamento umano, i vincoli evolutivi, lo sviluppo, le interazioni tra geni e ambiente e la dinamica delle malattie», sostiene Carmel. «A un livello più generale, è un passo avanti per riuscire a risalire all’anatomia di un individuo a partire dal suo Dna». Non tutti i ricercatori condividono l’entusiasmo. John Hawks dell’università del Wisconsin, uno dei massimi esperti sulla genetica dei denisoviani, mette in guardia sull’affidabilità del metodo usato con un esempio.
«Se dalla metilazione del Dna deduci che i Neanderthal avevano un bacino molto ampio, osservando le grandi ossa superiori del bacino neandertaliano puoi convincerti della validità di questa ipotesi» ha detto al Washington Post. «Ma se il Dna suggerisse l’ipotesi opposta, le ossa inferiori del bacino, più piccole delle nostre, ti darebbero comunque ragione. In entrambi i casi hai confermato la tua ipotesi, ma non l’hai davvero verificata».
Collegare il Dna all’aspetto fisico di un ominide è un’operazione delicata anche sul piano culturale. Può smontare luoghi comuni, come avvenne quando si scoprì che la presunta «razza ariana» aveva la pelle scura. Ma c’è anche il rischio di attribuire a una data forma del volto caratteristiche trogloditiche dispregiative. In assenza di sufficienti prove scientifiche, scienziati e illustratori sono più facilmente influenzati dagli stereotipi culturali. Fino a riprodurre, con l’imprimatur della scienza, i pregiudizi che la paleoantropologia potrebbe aiutarci a superare.

*

NOTIZIE

Stallman si dimette per lo scandalo Epstein

Lo scandalo Epstein, il miliardario condannato per lo sfruttamento della prostituzione minorile e suicida in carcere, continua a mietere vittime anche negli ambienti liberal della ricerca statunitense. Richard Stallman, attivista in favore del software libero più celebre e rispettato negli ambienti controculturali, si è dimesso dalla presidenza della Free Software Foundation, l’associazione da lui fondata e dalla sua posizione al Csail (laboratorio sull’informatica e l’intelligenza artificiale) presso il Mit di Boston. Il motivo delle dimissioni è la diffusione delle sue email di commento alla vicenda Epstein, in cui Stallman aveva difeso Marvin Minsky, il fondatore del CSAIL scomparso nel 2016 e coinvolto nelle orge con ragazze minorenni. Nelle email, Stallman sosteneva che lo scienziato fosse ignaro degli abusi fisici e psicologiche subiti dalle ragazze coinvolte, e dunque innocente (An. Cap.)

 

***

 

Fermare il metano ci dà una mano

Due ricerche indipendenti dell’università di Princeton, realizzate dai team di Mark Zondlo e Denise Mauzerall, puntano il dito contro il ruolo del metano nell’emergenza climatica, ritenuto responsabile di un quarto del riscaldamento climatico (per due terzi è prodotto dall’attività umana). Inoltre, rimane nell’atmosfera per «solo» 10 anni. Perciò limitare le emissioni di metano è possibile e consentirebbe in breve tempo di diminuire l’effetto serra. Le due aree individuate sono il Marcellus Shale basin in Pennsylvania e gli impianti estrattivi del mare del Nord, in cui le perdite di metano sono molte volte superiori alla norma e in cui sarebbe facile limitarle, con un rapido effetto globale. I ricercatori puntano il dito contro le nuove norme introdotte dall’amministrazione Trump, che alzano i limiti permessi per le emissioni di gas serra per le industrie statunitensi. (An. Cap.)

 

 

 

***

 

Assolti i manager di Fukushima

I principali dirigenti della Tepco, proprietaria della centrale nucleare di Fukushima all’epoca dello tsunami del 2011, sono stati assolti dal tribunale di Tokyo. I tre dirigenti erano accusati di aver concorso alla morte di 44 persone e all’evacuazione di 150mila nella zona della centrale quando onde di 15 metri provocarono il più grave incidente nucleare dopo Chernobyl. Tsunehisa Katsumata, Sakae Muto e Ichiro Takekuro erano accusati di aver trascurato un rapporto del 2008 che consigliava di aumentare le protezioni dei reattori in previsione di tsunami di forte intensità. Per la corte invece non avrebbero potuto far nulla per evitare il disastro (erano già stati prosciolti ma una giuria popolare aveva ribaltato il verdetto rinviandoli a giudizio). L’avvocato Hiroyuki Kawai, che rappresenta 5700 abitanti di Fukushima, ha annunciato un ricorso in appello. (An. Cap.)