Il bel film di Roberto Andò, Viva la libertà, che il regista ha tratto da un suo lavoro letterario dal titolo molto più significante, Il trono vuoto, tra le molte cose pregevoli che contiene ha quella di restituirci alla memoria e all’udito, tramite la voce di Toni Servillo, alcuni versi di eterna attualità di Bertolt Brecht, nella traduzione di Franco Fortini: «Dopo che si è lavorato tanti anni/ noi siamo ora in una condizione / più difficile di quando / si era appena cominciato. / E il nemico ci sta innanzi / più potente che mai. / Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso / una apparenza invincibile. / E noi abbiamo commesso degli errori, / non si può negarlo. / Siamo sempre di meno. Le nostre / parole d’ordine sono confuse. Una parte / delle nostre parole / le ha stravolte il nemico fino a renderle / irriconoscibili. /… Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi?». Versi che appartengono a una famosa poesia, A chi esita, tratta dalla raccolta Svendborger Gedichte, che racchiude componimenti poetici scritti da Brecht sul finire degli anni Trenta, durante l’esilio in Danimarca. Lo scrittore e drammaturgo Lion Feuchtwanger annotò che «l’impaziente poeta Bertolt Brecht ha scritto le prime poesie e le prime opere del terzo millennio». E qui appunto stiamo.

DIFFICILE QUINDI non riconoscersi in quelle parole, in particolare noi della frastagliata, litigiosa e minoritaria sinistra politica di oggi nel nostro paese. Tutta l’opera poetica di Brecht, a partire dallo splendido Libro di devozioni domestiche, per non dire della sua drammaturgia, è segnata dall’importanza del significato della parola. Purché sia autentico. Forse è per questo che Brecht non inseguì le palpitazioni dell’avanguardia letteraria dei suoi tempi, anche di quella più intelligente e socialmente avvertita. Ma, componendo poesie che erano sempre un colloquio con un interlocutore posto sul suo stesso piano, amava la parola nuda, per rendere il più evidente possibile il suo valore semantico, la parola che poteva essere pensata, scritta e detta allo stesso modo, così che il suo significato non potesse essere nascosto o travestito. Anche per questo impiegava spesso la forma della ballata popolare.
«Non è solo la Storia a fare le parole. Sono anche le parole a fare la Storia», ci avvertono subito Roberto Gramiccia e Simone Oggionni nell’introduzione al loro libro Le parole rubate. Contro-dizionario per la sinistra, prefazione di Alberto Olivetti (Mimesis, pp. 180, euro 14). La parola è potere, ce lo hanno spiegato da sponde opposte intellettuali come François Furet e Pierre Bourdieu. Difenderne il significato dai tentativi di mistificazione è una precondizione dell’esercizio della critica della società contemporanea e dello stesso agire politico. Un tentativo ardito quello dei due autori, inevitabilmente incompleto nella impossibilità di «competere con la sistematicità e il neutro rigore di glossari o dizionari veri e propri», come essi stessi subito ci avvertono. Un lavoro parziale e di parte, ma che va nella giusta direzione.

DIVERSE SONO LE PAROLE prese in considerazione. Di ognuna si dà il senso e la ragione dello stravolgimento che il mainstream semantico ha volutamente operato. Solo un esempio, il più facile se si vuole, ma nel quale ci imbattiamo a ogni passo. Per riforma dovrebbe intendersi un cambiamento profondo, benché prodotto con modalità non violente e spesso anche graduali. Ma il significato comunque positivo di questo termine, che tanto spazio e storia ha avuto nel linguaggio del movimento operaio mondiale, attorno al quale si sono costruite strategie e linee politiche, nonché consumate feroci divisioni è stato ora completamente stravolto. Dai documenti dell’Unione europea al chiacchiericcio dei talk show nostrani, il termine riforma è inteso e trasmesso nel suo significato opposto di controriforma, e il riformismo è diventato sinonimo di moderatismo che, se non è proprio il suo esatto contrario, ne costituisce un brusco capovolgimento di senso. Ma non è questo l’unico modo con cui si oscura e si travisa il senso di parole che ci appartenevano. Ve ne è anche un altro, assunto recentemente agli onori della cronaca. Non si tratta solo delle ricorrenti fake-news.

LO STRAVOLGIMENTO di senso avviene non solo per sottrazione, anzi per furto di significato, ma anche per moltiplicazione di significanti vuoti, attraverso suoni e immagini che «ibridano, alterano e trasferiscono in un codice altro il nostro vocabolario», ci avverte Alberto Olivetti nella sua densa prefazione. L’allarme deve essere massimo perché «la distruzione del linguaggio è la premessa a ogni futura distruzione», scriveva Tullio de Mauro, cui il lavoro di Gramiccia e Oggionni è dedicato.