Dentro due scatole da scarpe, dimenticate per più di cinquant’anni, sono custoditi i ricordi di un mondo ormai scomparso; un mondo che Cecilia Mangini, pioniera del documentario in Italia, rievoca attraverso vecchie fotografie, appunti e ricordi. Il film Due scatole dimenticate è un tuffo nella memoria della regista e nel viaggio affrontato in Vietnam nel 1965. Grazie alla coregia di Paolo Pisanelli il film, presentato in anteprima nazionale a Roma nell’ambito di Extra Doc Festival, riporta in vita quell’esperienza spostandosi all’interno dei racconti e delle fotografie scattate dalla regista, dando così la possibilità a Cecilia Mangini di ricollegarsi al suo passato e portare a compimento il documentario che avrebbe dovuto girare in Vietnam insieme al marito Lino del Fra a cui il film è dedicato.

Come nasce questo progetto?
PP: Potrei dire molto tempo fa, quando conobbi Cecilia grazie a un amico che mi fece vedere un documentario sui canti Stendalì che Cecilia aveva girato nel 1960. Sinceramente non sapevo nulla di lei ma quando vidi il suo film, rimasi stupito e invitammo Cecilia alla Festa del cinema del reale nel 2005. Da quel momento è nata una grande amicizia e collaborazione. Così con Claudio Domini, il curatore dell’archivio fotografico di Cecilia, abbiamo costruito una mostra antologica delle sue foto intitolata «Visioni e Passioni». Tra le varie sezioni, Viaggio nel sud Italia, Volti del XX secolo o il backstage del film
La loi di Jules Dassin, spiccava tra tutte quella sul Vietnam: una trentina di foto, non di più, ma magnetiche e affascianti. Dopo un po’ di tempo Cecilia ritrovò, in un armadio, due scatole piene di fotografie e negativi sul viaggio che aveva affrontato più di cinquant’anni fa con Lino del Fra in Vietnam. Erano talmente tante da poter colmare la lunghezza di un film; da lì è scoppiata la scintilla ed è iniziato il nostro viaggio nel Vietnam e all’interno della memoria di Cecilia.

CM: Lino ed io esplorammo il Vietnam a cavallo del 1965-1966, dove facemmo dei sopralluoghi per realizzare il film Le Vietnam sera libre, un documentario sul paese e l’emergenza che stava vivendo. Le foto che scattavo erano degli appunti visivi: invece di realizzare dei video facevo delle fotografie, raccontavo il Vietnam solo attraverso delle immagini. Questi sopralluoghi con Lino durarono tre mesi: quando i bombardamenti su Hanoi s’intensificarono, ci costrinsero ad abbandonare il Vietnam; il governo non voleva che ci fossero delle vittime, soprattutto se straniere. Provammo a scrivere anche una lettera a Ho Chi Minh, ma fu tutto inutile dovemmo abbandonare il Vietnam e il progetto di realizzare il nostro film. Fu una ferita enorme per noi.

All’interno del film è possibile seguire più livelli di lettura, come avete lavorato sulla costruzione del film?
CM: Oltre al reportage fotografico, io ma soprattutto Lino avevamo una specie di diario di bordo, dove registravamo le nostre impressioni, gli incontri fatti, i villaggi visitati e quello che ci accadeva come l’episodio in cui fummo portati in un commissariato di polizia. Ero stata accusata di aver fotografato dei soldati vietnamiti mutilati; sai loro erano dei soldati molto orgogliosi e non volevano in nessun caso farsi riprendere come dei deboli, delle vittime ma come degli eroi. Mi chiesero di consegnare il rullino incriminato che scambiai velocissima con un altro vuoto e ci lasciarono andare. Questi appunti evocati dalle voci di Stéphane Batut e Camille Gendreau, raccontano il Vietnam, il film che avremmo voluto girare e la mia memoria del passato; poi ci sono io che faccio i conti con la memoria del presente.

PP: Per quanto riguarda il ritmo, Cecilia ed io abbiamo lavorato con il montatore Matteo Gherardini che è stato molto importante per riuscire a cucire e dare continuità a tutti gli elementi presenti nel film. Questo tipo di costruzione, infatti, ha bisogno di una persona capace di fare sia un montaggio narrativo, ma soprattutto un montaggio sulle immagini. Con tutte le sequenze di foto che aveva realizzato Cecilia, bisognava trovare da un lato un modo per organizzare tutti questi scatti singoli e dall’altro cucire insieme tutti i temi più importanti: il tema politico, come Cecilia si era ritrovata a viaggiare da sola per raggiungere Lino a Hanoi, il mondo altro che era il Vietnam pronto a mostrarsi agli amici occidentali.

La colonna sonora gioca un ruolo fondamentale sul ritmo, ma soprattutto nell’animare ogni fotografia dandogli movimento, vita.
CM: Anche qui il montatore Gherardini è stato importante, anche perché ha il ritmo e il senso del montaggio che piace a me. Oggi non si fa altro che attaccare le immagini una dietro l’altra senza un’armonia, invece Matteo ha molta inventiva, senso del ritmo ed è un grande ricercatore dei suoni. Attraverso gli archivi ha cercato e trovato i rumori e i suoni che appartenessero proprio a quel periodo: gli aerei, le mitragliatrici, le bombe.

PP: Matteo ha trovato non solo scenari di guerra ma anche le voci delle campagne e delle città Vietnamite e con Simone Altana, sound designer, hanno realizzato un tessuto sonoro incredibile cercando di creare un ambiente acustico dove lo spettatore si sentisse completamento immerso. Anche le musiche composte da Egisto Macchi e Admir Shkurtaj, con cui avevo già collaborato diverse volte, hanno contribuito a dare ritmo alle fotografie e fluidità al montaggio.

Cecilia che cosa hai provato nel ritrovare le due scatole di fotografie?
CM: Un piacere immenso. Nella mia vita ho cambiato tante case e molto spesso gli oggetti finiscono chi sa dove e mi dimentico, poi ritrovarle è una vera sorpresa: si ritrovano le storie, le sensazioni, gli impegni che si sono presi e che guardo sempre con serenità se sono riuscita a portarli a termine oppure no. Queste foto e negativi erano in due scatole di scarpe su cui non avevo scritto nulla, normalmente metto sempre un appunto perché sono un po’ smemorata. La memoria è una fortuna, ma in molti casi anche la dismemoria è una grande fortuna.