La videoarte sembrerebbe trovarsi impigliata in un’insuperabile contraddizione legata al rapidissimo sviluppo tecnologico a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi decenni. Un’espressione creativa radicalmente legata all’idea di novità, di futuro, di scoperta, che riposa però su dei media che ci procurano oggi un’innegabile sensazione vintage – si direbbe quasi un triste contrappasso. Forse una risposta al senso e al ruolo della videoarte oggi è però contenuto nel titolo della mostra visitabile fino al 4 settembre al Palazzo delle Esposizioni e alla Galleria d’arte moderna di Roma e curata da Valentina Valentini, già docente alla Sapienza, saggista e esperta in materia.

Studio Azzurro, «Coro» (1995)

«IL VIDEO RENDE FELICI» – estratto di una citazione di Nam June Paik, che per intero suona così: «Il video rende felici perché è come il sesso, lo possono fare tutti». In realtà, non è la presunta democraticità del mezzo il punto, ma piuttosto il patto che le opere di videoarte instaurano con lo spettatore. Come mostrano quelle esposte nelle due sedi museali romane, soprattutto a Palazzo delle esposizioni – alla Galleria d’arte moderna il taglio è più quello della retrospettiva e dell’approfondimento – è nell’interazione che risiede la «fonte della felicità». Le parole più adatte per definire la proposta sono gioco e sorpresa, nell’ambito di un approccio fortemente desacralizzato e fondato sul qui e ora, che nella sua declinazione installativa invita a toccare, a entrare nell’opera stessa, ad assumere pose inusuali. C’è infatti, quasi sempre, una leggerezza che si accompagna all’operazione teorica del ripensamento dei codici, una dimensione ludica e infantile – quella che recita: Chissà cosa accadrà mentre camminiamo su Coro, uno dei primi ambienti «sensibili» di Studio Azzurro del 1995? Oppure quando la silhouette dello spettatore compare sul monitor insieme a quella di Bill Viola, intento a meditare ne Il vapore del 1975? Oggi sappiamo – e forse nei decenni in cui queste opere sono nate non era altrettanto chiaro – che il pensiero della superficie e dell’incontro è importante quanto quello della profondità e dell’introspezione, e pure che tra i due esiste una corrispondenza.

COME SI ACCENNAVA, la mostra è «bifronte» e le ampie sale del Palazzo delle Esposizioni permettono di accogliere dispositivi pensati su grande scala. Il primo, estremamente affascinante, è Film Ambiente di Marinella Pirelli ideato nel 1968-69. Su un grande parallelepipedo di plastica, percorribile, vengono proiettate immagini di diversi colori e forme, sono delle riprese di un gruppo di sculture di Gino Marotta. Si genera un caleidoscopio di rifrazioni che incanta, una sorta di indagine immaginifica della materia che richiama le sperimentazioni sulla pellicola di Stan Brakhage. L’installazione di Michele Sambin, Il tempo consuma, avvolge e sovrasta con la sua ripetitività ossessiva, lo stesso meccanismo di Fatica n. 26 di Daniele Puppi. L’effetto vintage di cui si diceva sopra è inevitabile con Computer Comics dei Giovanotti Mondani Meccanici, sperimentazione grafica per il computer avanzatissima per il 1984 con testo di Pier Vittorio Tondelli, proiettata su un tulle che ne riverbera l’immagine, di cui non si perde però lo spirito. Ancorata invece alla contemporaneità è Technologies of care di Elisa Giardina Papa, opera del 2016 che traspone su schermo, impersonificati da avatar digitali, discorsi di lavoratori e lavoratrici le cui professioni sono legate al mondo digitale. Si crea qui un effetto straniante tra l’emotività racchiusa nelle parole e l’inespressività macchinica della lettura automatica. Alla Galleria d’Arte Moderna gli spazi sono decisamente più piccoli, è quindi il luogo deputato per il video monocanale e la visione statica.

ALL’INIZIO DEL PERCORSO c’è però l’opera di Daniel Buren a metterci in guardia sull’affidabilità dello sguardo. Una parete a strisce colorate viene ripresa, in diretta, da alcune telecamere, l’immagine trasmessa poi a diverse tipologie di schermi, dal tubo catodico ai moderni tablet. Se a livello razionale sappiamo bene che le immagini non riproducono mai la «realtà», fa comunque una certa impressione vedere le differenze tra un dispositivo e l’altro, evidenziando così la parzialità del mezzo. Proseguendo, i numerosi video visibili nei monitor sono raggruppati con l’idea di ricostruire la storia della videoarte in Italia nelle sue diverse ramificazioni: i festival, i centri di produzione, le intersezioni con la televisione e le altre forme artistiche come il teatro, la danza, l’architettura. Sono poi da segnalare le attività correlate alla mostra, soprattutto le rassegne di proiezioni al Palazzo delle Esposizioni di cui molte dedicate a singoli artisti, che si svolgeranno fino alla fine di giugno. Chiudiamo idealmente il percorso con Il televisore che piange di Fabio Mauri, un lungo pianto su schermo bianco che irruppe nelle trasmissioni Rai del 1972 e che fece sobbalzare gli spettatori. Perché per le gioie del video serve anche un po’ di coraggio.