Un tema -non tema lirico che costeggia l’atonalità e anche la cantabilità classica. Sarà la traccia di tutta la Composition 189? Uhm, poco credibile. Qui di tracce ce ne sono talmente tante. Però una sorta di leitmotiv si potrebbe dire. Tornerà con altre sembianze nel corso di quasi un’ora di musica. Anthony Braxton ai sax alto soprano e sopranino, Jaqueline Kerrod all’arpa. Bologna, Centro di Ricerche Musicali, 27 maggio 2018 per il festival Angelica. Ora in disco. E non è una notizia qualsiasi. Braxton che gorgoglia accattivante con scale e arpeggi della «convenzione» bop/free ma con la chiara idea di farne elementi di un discorso ribelle, comunicativo, apertamente edonista/dionisiaco.

DISCORSO che – attenzione! – non oscura la base teorica-performativa braxtoniana che è quella di un razionalismo neo-illuminista senza un grammo della rigidità dei progenitori settecenteschi. Kerrod esce fuori pian piano con acute interlocuzioni: tremoli, stacchi puntillisti, qualche rumorismo che rende assai metallico il suo strumento. Braxton è stimolato da questa partnership come raramente gli è accaduto in carriera. Eppure gli è accaduto un bel po’ di volte e ad alti livelli di essere felice solista oltre che compositore! Decostruisce l’ordine sonoro del mondo con sovracuti di mirabile (irraggiungibile?) singolarità. Sovracuti ben meditati e immediati abbellimenti di nuclei «rugginosi» sul grave. Per poi lanciarsi in una espansiva ultra-affettuosa uscita melodica alla Johnny Hodges. Tutti episodi transitori di un viaggio fatto di continui nuovi paesaggi. Capiamo che siamo di fronte all’Evento (una maiuscola ogni tanto ci può stare). Chiamatelo capolavoro, chiamatelo momento miracoloso della storia delle arti, chiamatelo come volete ma questo è.

Jaqueline Kerrod
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CHE DIRE delle frasi konitziane/schönberghiane di Braxton, melodie riflessive che appaiono ciclicamente (sarà il leitmotiv?). A un certo punto c’è persino una conversazione teatrale tra i due strumentisti, come un interludio di intesa del genere «divertimento», con qualche onomatopea e inviti a farsi il verso. Ma come si fa a star dietro a questa avventura, questa esplosione di idee, questa invenzione continua, senza soste? Eppure con un che di «olimpico» per la totale assenza di enfasi e di aggressività sonora? Il cronista non ci riesce. Le figure musicali irregolari, indisciplinabili, sempre seducenti, sono innumerevoli. Il territorio sparisce (Deleuze finalmente accontentato), c’è solo spazio da vivere emozionalmente e razionalmente (un unicum) e niente qui è men che mondano, men che immanente.
Un Braxton che si chiede «che cosa può la musica» e intanto si trastulla con gli esercizi di non-scuola da lui stesso non-scritti nel corso del tempo, da quel For alto del 1968 che lo rivelò agli amanti rivoluzionari dei suoni come il principale pensatore che apriva tutte le strade.