Sarebbe utile partire da Proust in progress: 1971-2015 di Jacqueline Risset (a cura di Marina Galletti e Sara Svolacchia, Artemide, pp. 312, euro 30) per prepararsi alla lettura dei Soixante-quinze feuillets (Gallimard), l’inedito che contiene le prime stesure delle scene più antiche della Recherche. Il diario di bordo che annota le molteplici traversate di Risset nel testo proustiano è stato realizzato grazie al lavoro dell’Associazione Archivio Risset Todini, la rete pluridisciplinare che riunisce decine di studiosi fra Italia e Francia intorno all’opera di Risset.
«Archivio e dimora ma anche Salon» che «emana fervore, amicizia, passione culturale e umana», scrive Umberto Todini nell’introduzione al volume, sottolineando la forza dei rapporti di amicizia e l’esuberanza di un pensiero mai solitario, capace di parlare molte lingue e di orientarsi, trovando un cammino attraverso la filosofia, la psicoanalisi, la sociologia, le arti figurative, il cinema, la musica, il teatro. Questo modo di attraversare le letterature, gli orizzonti artistici, culturali e scientifici del Novecento può essere percepito come poco ortodosso, nel tempo dell’università neoliberista e delle strategie autoimprenditoriali trasfuse nelle retoriche dell’argomentazione scientifica.

SI INTUISCE che il valore della sua testimonianza postuma consiste anche nel dar voce al desiderio di conoscere tra le frontiere, senza sacrificare rigore e disciplina, ma abbandonando la sterile comodità dei gerghi specialistici autoreferenziali, dei petit clan e delle idee di ricerca scientifica ad essi corrispondenti nel campo istituzionale.
L’impianto del libro tiene insieme saggi, articoli e recensioni nel tentativo di mappare un corpo di studi polimorfo ed esteso nel tempo, facendone una sorta di radiografia: scritti dal respiro più lungo si affiancano a testi apparsi su quotidiani e riviste, nell’intento di illuminare ciò che l’autrice chiama la «rivoluzione proustiana» – «rivoluzione discreta e quasi inapparente, di cui forse solo questo fine secolo sta misurando a poco a poco l’ampiezza».
Intesa in senso rivoluzionario, la prospettiva della Recherche risulta intrinsecamente incompiuta, interminabile, protratta al di là della parola «fine» tracciata dalla mano di Proust. Nella prima parte, Risset dialoga con un immenso corpo di saperi (linguistica, filosofia, critica letteraria, semiotica, psicoanalisi, storia dell’arte, poesia), sulla base di questa intuizione sulla letteratura come dispositivo di conoscenza, in un’indagine transdisciplinare fondata sulla consapevolezza che «scrivere (pensare) significa scoprire che il pensiero è desiderio e morte del desiderio – significa, inevitabilmente perdersi e dover cominciare quando la parola «fine» è scritta, quando la morte è presente».

LA SECONDA PARTE del volume riunisce recensioni e testi brevi apparsi nell’arco di quarant’anni sulla stampa quotidiana e periodica, insieme a due saggi dedicati a Giacomo Debenedetti e Giovanni Macchia interpreti di Proust. Quest’ultimo, definito come un «arciere zen» per la sua capacità di mirare «in quella foresta di frammenti ritrovati di recente» senza perdere di vista l’insieme del disegno, ci offre un’opportunità per riflettere sul nuovo «Graal» degli studi proustiani, la cui edizione italiana (a cura di Daria Galateria) è stata annunciata da Elisabetta Sgarbi per La Nave di Teseo.
Riflettendo sul ritrovamento della proto-Recherche, Mariolina Bertini ha affermato che «sono pagine imperfette e frammentarie; contengono spunti che verranno abbandonati e altri che verranno sviluppati instancabilmente nei Cahiers, sino a diventare tutt’altra cosa». Potremmo dire la stessa cosa delle pagine di Risset? Si tratta di impegni, epoche, generi e circostanze diverse, ma la comprensione del diventare tutt’altra cosa, che muove nel profondo il dispositivo letterario di Proust, rappresenta il cuore pulsante di questa esperienza di lettura critica del romanzo e della metodologia con cui la traduttrice francese di Dante ha affrontato le questioni capitali della letteratura.