Balikbayan in Tagalog (la lingua più diffusa nelle  nelle Filippine) significa «lavoratore straniero», una condizione comune a moltissimi filippini poveri, in Italia sono stati tra i primi migranti, e che adesso si dirigono in altre zone dell’Asia come Singapore, Hong Kong, la Malesia, o anche in Arabia Saudita. Sono domestici, manovali, operai, badanti e quant’altro, e costituiscono un giro d’affari enorme, organizzato col supporto dello stesso governo filippino tramite agenzie che collocano i lavoratori. Su di loro pesa il mantenimento di tutta la famiglia ma quel flusso è anch’esso una forma di «traffico degli esseri umani».

 

 

É anche per questo che Kidlat Tahimik ha scelto la parola come titolo del suo film, Balikbayan#1 Memories of Overdevelopment Redux III, una delle proposte più spiazzanti arrivate dalla selezione del Forum, infatti ha vinto il premio Caligari riservato al miglior film della sezione che continua a proporsi come quella di ricerca del festival tedesco, al cui interno trovano posto le tendenze meno classificabili e di crossover (specie nel Forum Expanded) del cinema contemporaneo – il premio Fipresci della critica internazionale è andato invece a Il gesto delle mani, unico italiano della selezione, diretto dal giovane filmaker Francesco Clerici.

 
Balikbayan non è però uno nuovo capitolo di quel cinema filippino che da diversi anni (con le punte di Lav Diaz) ha scompigliato gli immaginari internazionali dimostrando come in una nuova generazione la «lezione» di predecessori quali Lino Brocka è stata applicata ai colonialismi culturali imposti al Paese – Stati uniti in testa – per rovesciarli in un’immagine/immaginario indipendente e antagonista. Kidlat Tahimik di registi come Raya Martin sembra essere il «maestro» o almeno un riferimento fondante nell’esigenza di riscrivere la Storia delle Filippine dal punto di vista del colonizzato, contro la logica del colonizzatore (un film come Independencia che ha affermato Martin molto deve a Tahimik).

 

 

Nato nel 1942, vero nome Eric Oteyza, anche lui tra le sue molte esperienze, come ha raccontato, «lavoratore straniero» in Germania – pure se con condizioni assai migliori – Tahimik dal suo primo film, nel ’77, Perfumed Nightmare, dichiara la sua sfida all’immaginario dentro a quel «terzo cinema» postocoloniale che afferma la rivoluzione di lingua, categorie, prospettiva storica. E utilizzando ogni forma narrativa e visuale. Come in questo Balikbayan cominciato una trentina di anni fa fa con l’idea di fare un film sui viaggi di Magellano ma narrati dal suo schiavo, Enrique Malaka, che Magellano aveva comprato in Malesia, e che avrebbe finito la circumnavigazione al suo posto, dopo che era stato ferito, riportandolo poi in Portogallo. Malaka che non sa scrivere racconta la storia con statuine di legno, e a sostegno di questa ipotesi ci sono anche gli scritti di Pigafetta.

 
Il film però si è bloccato, come se fosse anch’esso un’impresa epica, ed è passato in mezzo a cambiamenti storici, politici, tecnologi mentre Tahimik è invecchiato insieme al personaggio dello schiavo Enrique a cui da vita sullo schermo.
«Lo yo yo nella giungla non è un semplice giocattolo» dice la voce off presentandoci Enrique. Balikbayan non è un semplice film. É un poema visivo che unisce home movie, vita, cinema, pensiero sul colonialismo, e più in generale sull’immaginario coloniale e i suoi archetipi, l’arte dell’altrove e i suoi fraintendimenti, «selvaggio» e civilizzazione nei rapporti di forza che quasi sempre significano il massacro degli uni (i conquistatori) sugli altri (i nativi). Dai 16 millimetri si passa a altri formati, inserti di cinema muto e appunti quasi lisergici, i piani delle storie si mescolano e con umorismo il regista ci conduce nel suo universo fantastico in cui i significati dominanti del linguaggio vengono capovolti.

 
Chi è quell’uomo che cerca di circumnavigare il mondo? E cosa si aspetta di scoprire oltre gli orizzonti conosciuti?
L’arte e il pensiero che non sono i souvenir di viaggio, come invece vuole la tradizione dei viaggiatori. Nella casa di Pigafetta a Vicenza una scritta accoglie il visitatore: «Non c’è rosa senza spine». E in quella di Magellano le stanze sono affollate di quei souvenir, un tappeto di tigre, le statuine primitive. Col suo editore discute il prossimo libro che raccoglierà i suoi viaggi.

 
Cultura orale e cultura scritta.
All’arte dei nativi, che non si riconosce come tale, viene negato il racconto del mondo. Quella Storia che toglie loro il linguaggio, la prima persona degli immaginari. Eccoci dunque a seguire questa «nuova» e altra circumnavigazione sulle tracce del «Genius» indio che al tempo stesso reiventa l’immagine del mondo forzando i limiti di una centralità occidentale coloniale e post. Sincretico e eretico Tahimik produce un’esperienza sensoriale radicalmente politica e sensuale, un viaggio anche per lo spettatore «costretto» con dolcezza a riposizionare i suoi punti di riferimento in un cinema strabico di magnifica libertà.